Il pangolino untore?

di Gabriele Ripandelli, 20 anni, di Perugia

Il PANGOLINO UNTORE: L’ALLARME DELLA BIODIVERSITÀ

Il pangolino, forte quanto tenero, è una buona occasione per riflettere sulla biodiversità

In origine furono i serpenti. Poi si passò ai pipistrelli. Ora sono i pangolini ad essere additati come nuovi untori per il Sar-CoV-2. L’unica certezza sembra essere il luogo d’origine del nuovo coronavirus: un mercato alimentare in cui si scambiavano animali selvatici e si vendeva la loro carne. Tra questi, c’era il pangolino. Il “formichiere corazzato” raccoglie quindi l’eredita di portatore di epidemia, dal cane procione e dalla civetta delle palme, portatori nel 2003 della SARS. Il comunicato stampa del 7 febbraio dei ricercatori della South China Agricultural University di Guangzhou, che affermava il 99% di compatibilità tra il CoronaVirus dei pangolini e quello degli umani, è però stato seguito da una rettifica. Il 20 febbraio la cifra risulta essere riferita non all’intero genoma (il quale ha solo il 90,3% della compatibilità), ma alla sequenza del dominio di legame dei recettori (Rbd) che serve al virus per legarsi alle cellule e penetrarle. L’errore di comunicazione porta a ripensare i pangolini non come origine, ma come passaggio intermedio. Il tutto fa comunque riflettere sul contatto tra l’uomo e le specie selvatiche. Il passaggio è solo una delle conseguenze della rottura della biodiversità, e dello stretto contatto con i selvatici.

IL COMMERCIO ILLEGALE DI ANIMALI

Il commercio di animali ha numeri e dimensioni enormi.  Da quanto emerge da uno studio pubblicato nell’ottobre 2019 dalla rivista “Scienze”, una specie su cinque, considerando i vertebrati, è oggetto di commercio. La percentuale sale al 65% se si considerano quelli terrestri. Ampliando il discorso, la maggior parte delle specie commercializzate sono mammiferi ed uccelli, con i rettili al secondo posto. I motivi per cui avviene questo commercio sono quattro e sono specifici per la parte di animale che si commercia. Si passa dal collezionismo, che comprende soprattutto corna e pelli, all’impiego alimentare, dove si utilizza soprattutto la carne, i rimedi per la medicina tradizionale, dove abbondano squame e scaglie, e l’utilizzo come animali di compagnia, l’unica motivazione per cui vengono lasciati in vita. Nella loro compravendita influisce molto la presenza degli animali nei media, pensiamo alla grande richiesta di gufi dopo il successo della saga di Harry Potter o dei pesci pagliaccio e dei pesci chirurgo blu, le star di “Alla ricerca di Nemo”. Le specie coinvolte nei traffici, più o meno legali, sono sempre appartenenti alle categorie di rischio elevato di estinzione o vulnerabili. Più un animale sarà raro, più sarà alto il suo valore di mercato e più sarà cercato per venderlo. Per quanto riguarda gli animali da compagnia, le tratte di mercato partono dalla fascia tropicale, mentre i prodotti provengono dall’Africa e dal Sud-est Asiatico. I numeri relativi al commercio illegale sono spaventosi: dal 2008 al 2019 sono stati sequestrati 225 mila kg di avorio derivante da zanne di elefante e più di 4500 corni di rinoceronte, negli ultimi vent’anni c’è stato un commercio di 895 mila pangolini. I dati comprendono anche tigri, orsi, uccelli, tartarughe e tanti altri animali commerciate anche legalmente, come le oltre 180 milioni di rane vendute dall’indonesia all’Europa e gli Stati Uniti.

QUANDO LE SPECIE DIVENTANO ALIENE

Trasportando le specie selvatiche al di fuori del loro areale, si può andare incontro al rischio che esse diventino specie aliene invasive. Qualora arrivate nel nuovo ambiente riuscissero a sopravvivere, le specie alloctone potrebbero entrare in competizione con una o più specie autoctone e modificare l’equilibrio dell’habitat. Questo potrebbe portare anche all’estinzione delle specie indigene, considerando che le specie aliene non hanno nei nuovi territori parassiti e predatori che possono fermare la loro crescita. Piero Genovesi, responsabile dell’ufficio fauna dell’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha affermato a Scienze in Rete che “A scala mondiale, il vettore principale di ingresso di piante ed animai è il commercio di piante ornamentali. Mentre le piante, per la vivaistica, e i vertebrati, come animali d’affezione, sono importazioni volontarie, gli invertebrati spesso sono trasportati accidentalmente, come contaminanti di altre merci”

L’EFFETTO SULL’UOMO

Uno degli effetti più preoccupanti per l’uomo è che il commercio di fauna e flora può trasmettere patogeni. Un esempio molto noto sono le zanzare, che portano la malaria. Il giacinto d’acqua, una pianta ornamentale capace di formare enormi distese di piante galleggianti, creando un bell’effetto visivo, creano un ambiente idoneo per le larve di zanzara, aumentando il rischio di malaria. La Panace di Mantegazza, originaria del Caucaso ed importante anche in Italia, è un esempio di specie tossica: il lattice, che fuoriesce dalle foglie e dalle specie danneggiate, può provocare ustioni sulla pelle se esposto al sole.

L’EFFETTO SULL’ECONOMIA

L’invasione di insetti e di organismi alieni in Italia ha portato oltre un miliardo di euro di danni nel 2019 e gravissime conseguenze sul piano ambientale, paesaggistico ed economico. I cambiamenti climatici e la globalizzazione degli scambi, secondo quanto emerso dal rapporto Coldiretti “Clima: la strage provocata dalle specie aliena nelle campagne”, sono i principali motivi di queste conseguenze. Sono numerosissimi gli insetti arrivati nella penisola negli ultimi anni e per i quali le piante nostrane non avevano sistemi di difesa efficaci. Esempi validi possono essere: il moscerino Killer che ha attaccato ciliegie, mirtilli ed uva dal Veneto alla Puglia; il cinipide galligeno che ha fatto strage di castagni; il punteruolo rosso che ha decimato le palme; la cimice marmorata asiatica che attacca mais, fagioli, albicocche, girasoli ed altri tipi di coltivazioni.

L’EFFETTO SULLE ALTRE SPECIE

“Ci sono specie che nell’areale di origine sono minacciate, ma che introdotte in altri ambienti diventano invasivi”. Con le parole di Piero Genovesi a Scienze in rete si può riassumere un terzo aspetto fondamentale da prendere in considerazione. È proprio la concorrenza tra specie autoctone ed alloctone, ribadiamo, ad essere il principale problema delle specie aliene. A volte, si può arrivare anche all’estinzione delle specie indigene. Rischia molto lo scoiattolo rosso, originario europeo e quasi scomparso nelle isole britanniche, di essere sostituto dallo scoiattolo grigio americano. Molte specie alloctone sono state introdotte nei fiumi italiani, come il pesce gatto ed il siluro, che hanno portato all’estinzione di specie autoctone. In Australia molto particolare fu l’impatto dei conigli, che in 100 anni, dal 1859 agli anni ’50 del XX secolo, passarono da 13 esemplari a un miliardo di capi, non trovando predatori competitivi. La volpe, portata in Australia per ridurre il numero dei conigli, si concentrò su prede più facili dei conigli. Tutto ciò portò all’estinzione di specie autoctone. 

L’uso non sostenibile delle risorse naturali, l’espansione antropica in ambienti un tempo selvaggi, il commercio e lo sfruttamento dei selvatici creano condizioni perché i patogeni possano fare salti di specie. La tutela delle popolazioni umane stesse è sempre stata collegata con la protezione della natura. Bisogna per questo agire direttamente sui comportamenti dei consumatori, per ridurre alla base la richiesta ed il traffico illegale di specie aliene.

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Torino: da Motore per il Paese, a Città Avamposto per il Futuro.

di Alessio Richiardi, 28 anni, di Pinerolo (To)

biciclette-sharingSentiamo sempre più spesso parlare di ecosostenibilità ed ecologia: due termini che stanno permeando le radici delle nostre città ed il nostro modo di vivere, portandoci a compiere gesti quotidiani, anche piccoli, ma non per questo meno importanti, per aiutare il mondo ad essere più pulito. In altri termini, è come se prendessimo un pezzo rock conosciuto da tutti, tuttavia mai sufficientemente apprezzato per quanto realmente vale, e ne remixassimo una parte creando una nuova Hit Estiva.

È su questa onda pensiero che, negli ultimi anni, anche il modo dell’auto ha visto delinearsi una trasformazione radicale, che ha aperto la strada alla mobilità ecosostenibile; sono infatti molte le città europee che si stanno rivoluzionando e Torino, capitale dell’auto endotermica, vuole essere esempio lampante di innovazione e continui miglioramenti per rendere più green una città impregnata dal grigiore industriale.

#Micromobilità:

monopattini-elettrici-in-centro-a-torinoRecentemente i torinesi hanno visto la comparsa, vicino alle più tradizionali biciclette a noleggio, dei nuovi monopattini elettrici, che, con qualche semplice App, possono essere noleggiati a tempo, per compiere piccoli spostamenti nelle vie del centro. Questi mezzi, a fianco delle servizio di sharing delle biciclette, già presente da anni in città, rappresentano un fulcro fondamentale della micromobilità urbana, offrendo la possibilità di muoversi anche elettricamente in piena libertà, raggiungendo velocità di 30km/h, e garantendo un’autonomia di alcune ore. In questo modo, diventa molto gli spostamenti veloci senza dover usare la propria vettura diventano più efficaci.

#Carsharing:

bluetorino-alla-colonninaDa circa 3 anni a Torino è nato un progetto di Carsharing con veicoli totalmente elettrici: stiamo parlando di Blue Torino. Le vetture usate sono state create dal centro stile Pininfarina e rappresentano il fiore all’occhiello della mobilità in città, per via del loro propulsore 100% green. È possibile trovarle in molti punti di Torino, attaccate alle loro colonnine di ricarica,  pronte per essere prenotate e guidate dagli utenti che scelgono questo servizio. A una prima vista, sembrano piccoli ovetti dal design molto futuristico, ma gli interni, decisamente spaziosi e luminosi, derivano dalla ben più conosciuta Lancia Ypsilon. I costi prevedono un canone iniziale per il noleggio, in seguito le tariffe variano in base al tempo di utilizzo e ai chilometri percorsi.

#Hybrid:

Abbiamo parlato di mobilità in condivisione, ma, a partire da Febbraio 2020, i privati hanno anche la possibilità di acquistare le due nuove varianti delle Citycar di casa FCA. Il grande colosso dell’automobile ha infatti lanciato la Panda e la 500 in versione Hybrid, caratterizzate non solo per dal motore elettrico, ma anche dalle vernici a basso contenuto di catalizzatori e interni in plastica riciclata, raccolta in mare: un bel respiro per i nostri mari sempre più zeppi di plastiche!

Il simbolo H che contraddistingue i modelli e dà il nome alle due vetture deriva da cosa c’è sotto il cofano….. o forse meglio dire sotto il sedile passeggero… Già, perchè, se nel vano motore troviamo il nuovo 1.0 FireFly da 64cv, abbinato ad un cambio manuale a 6 marce, è sotto il sedile passeggero la vera rivoluzione. Lì, infatti, è stata alloggiata la batteria che regala 5cv in più al motore a benzina rendendolo così il primo motore ibrido di casa Fiat. Questa batteria svolge molteplici ruoli: sotto i 30km/h fornisce unica propulsione al veicolo, mentre in marcia va ad accoppiarsi al motore termico, per fornire maggiore spinta alle marce basse e regolarizzare i consumi ad alti giri, al fine di ridurre l’apporto di carburante ed i consumi: un bel risparmio per l’ambiente! La casa dichiara che all’anno si possono arrivare a spendere fino a 700€ in meno (*rispetto alle auto ad alimentazione tradizionale): un ottimo incentivo nel rispetto della natura.

il ventaglio di possibilità offerte copre gran parte di ció che è la mobilità ecosostenibile: ora gli utenti hanno tutte le carte in regola per poter viaggiare, in città e non, in massima libertà. Non resta che trovare il giusto compromesso per ognuno di noi.

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Green is the new black

di Maddalena Binda, 25 anni, di Carate Brianza (MB)

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“Vola con Ryanair perché abbiamo le emissioni di CO2 più basse tra le maggiori compagnie aeree d’Europa. Ryanair: emissioni più basse, tariffe più basse.” In Gran Bretagna, questo spot pubblicitario è stato cancellato nel 2019, dopo che l’ASA (Advertising Standard Authority) lo ha ritenuto ingannevole: le informazioni fornite dalla pubblicità in questione erano parziali e non aggiornate. Lo spot, in particolare, rivendicava un primato, quella di compagnia con le minori emissioni di CO2, basandosi su dati del 2011. Ryanair, inoltre, non specificava quali fossero le altre compagnie coinvolte. Sul loro sito, si enfatizza l’impegno ambientale di Ryanair che permette ai propri clienti di effettuare donazioni ad enti che si occupano della salvaguardia dell’ambiente: 2.5 milioni di euro raccolti. Il traguardo raggiunto è ben in evidenza. Nascosto all’occhio di chi scorre velocemente la pagina del sito web, però, è un altro dato: solo poco più del 2% dei clienti ha effettuato una donazione.

L’esempio di Ryanair, responsabile dell’inquinamento atmosferico e acustico, in quanto leader del settore dei trasporti aerei è uno dei tanti casi di greenwashing in cui il consumatore si imbatte quotidianamente. Il termine greenwashing è un neologismo: creato negli anni ’80, deriva dalla parola inglese whitewashing (riverniciare) e letteralmente significa “verniciare di verde”. Indica tutte le strategie di comunicazione che un’azienda attua per appropriarsi di pratiche sostenibili, anche se ciò non corrisponde alla verità, o di presentare le informazioni in modo ingannevole, confondendo il consumatore.

Con l’ondata dei movimenti Fridays For Future, l’attenzione ambientale è cresciuta: termini come naturale, sostenibile, eco-friendly vengono abbondantemente utilizzati nella pubblicità o sulle etichette dei prodotti, alimentari e non, che si trovano al supermercato. E tutto si tinge di verde perché il verde è il nuovo nero.

Nel 1992 è nato EU Ecolabel, il sistema di certificazioni europeo: dall’estrazione o la coltivazione delle materie prime fino ad arrivare alla fase di smaltimento o riciclo, passando per quella di lavorazione e di imballaggio, tutti i processi devono soddisfare alcuni criteri stabiliti. Il funzionamento dell’EU Ecolabel è controllato dal Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio. Questo sistema di certificazioni, essendo garantito dall’UE è affidabile. Può servire al consumatore come garanzia di sostenibilità e come strumento di paragone per confrontare altri marchi che si definiscono “eco-friendly”.

Un ulteriore esempio di greenwashing riguarda la linea “Conscious” di H&M, noto marchio fast fashion: i capi di abbigliamento, rigorosamente dotati di un’etichetta verde, sono orgogliosamente promossi ed esposti nei vari negozi. Cercando maggiori informazioni sul sito dell’azienda, però, si legge che i prodotti della linea Conscious per essere certificati come tali devono avere il 50% di materiali sostenibili. E il restante 50%? La domanda nasce spontanea.

Il consumatore deve, perciò, restare sempre all’erta e diffidare di slogan e iniziative sensazionalistiche: non tutto quello che luccica è oro.

Anche il recente annuncio della creazione di un fondo per l’ambiente da parte di Jeff Bezos, CEO di Amazon, sebbene non sia definibile come caso di greenwashing, sfrutta la crescente sensibilità ambientale della popolazione per poter promuovere l’immagine dell’azienda. Il Bezos Earth Fund comporterà un finanziamento iniziale di 10 miliardi di dollari da devolvere a centri di ricerca e organizzazioni che si occupano della salvaguardia ambientale e dello sviluppo sostenibile. L’annuncio della generosa donazione segue le proteste di qualche centinaio di dipendenti che, negli USA, hanno iniziato a chiedere un cambiamento nelle politiche del colosso americano: ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall’azienda entro il 2030, interrompere i finanziamenti alle società di combustibili fossili e ai membri negazionisti del Congresso americano. Il fondo, inoltre, sembra una risposta alle polemiche nate sul web per la sua donazione a seguito degli incendi in Australia: solo 690 mila dollari a fronte del suo patrimonio di quasi 130 miliardi di dollari.

Con gli strumenti che il consumatore ha a disposizione oggi, internet in primis, è fondamentale verificare la veridicità di iniziative o cambiamenti sostenibili che le maggiori aziende pubblicizzano per non cadere nell’inganno, acquistando prodotti sostenibili solo nella facciata. Alla fine, come dice il proverbio, l’abito non fa il monaco.

 

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I pirati dei Raee: tra abusivismo ed export illegale

inchiesta multimediale di Pietro Mecarozzi, 25 anni,

https://readymag.com/1290778
https://readymag.com/1309619

Umberto Eco la chiamava “bulimia senza scopo”, mentre nel gergo tecnico viene definita come obsolescenza percepita. L’esempio più comune per spiegare questo fenomeno, è quando un nuovo smartphone ci dà molto poco rispetto al vecchio, ma quest’ultimo diventa obsoleto dal momento in cui si viene attratti dal desiderio del ricambio. Il modello vecchio diventa così un oggetto d’antiquariato e di conseguenza il suo valore scende in picchiata, magari, nel giro di pochi mesi dal suo lancio sul mercato. I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, pertanto, sono anche quest’ultimi.
Comunemente conosciuti come Raee, a inserirsi in questa categoria sono tutte quelle apparecchiature di tipo elettrico o elettronico guaste, inutilizzate, obsolete o comunque destinate all’abbandono.
La tecnologia è in una fase di ascesa vertiginosa, come allo stesso tempo di invecchiamento precoce: il nuovo nasce con l’ombra di un modello ancora più moderno e all’avanguardia sulle sue spalle, e così via, a quanto si può prevedere, all’infinto. Un continuo ricambio generazionale, in termini di hi-tech.
Ma ci siamo mai chiesti dove finiscono i milioni di smartphone, di tablet o di lavatrici che ci apprestiamo a rinnovare al primo segno di usura o all’uscita di un modello esteticamente e tecnologicamente più promettente?

 

Il continente discarica

Nel 2018, a livello globale, sono stati prodotti circa 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, l’equivalente di 4.500 Torre Eiffel. Nel 2050 è stato calcolato che supereranno i 120 milioni, di pari passo con l’avanzare repente della tecnologia. Allo stato attuale, con un corretto smaltimento dei Raee si avrebbe un giro di affari di circa 62,5 miliardi di dollari: dovuti soprattutto alla presenza di ferro, oro, argento, rame e alluminio, ma anche di quei componenti cosiddetti terre rare (lantanio, ittrio, cerio, samario), ambìti in particolare dalle industrie militari e aerospaziali.
Tuttavia, la percentuale di Raee correttamente smaltita in termini globali è del 20%.
Dove finiscono quindi i rifiuti che non vengono trattati?

La Terra dei Fuochi: Forse un’Altra Storia

di Rebecca Vitelli, 24 anni, di Carpineto Romano

In campo ambientale una delle storie più tristemente note è, certamente, quella della Terra dei Fuochi, ovvero l’area compresa tra Nola, Marigliano e Acerra, così rinominata per i roghi tossici che l’hanno caratterizzata fino a qualche anno fa.

L’interesse di gruppi criminali per il settore ambientale e, nello specifico, per lo smaltimento di rifiuti, è tutt’altro che recente ed è testimoniato su tutto il territorio nazionale. Il tutto nasce dagli anni ’70, quando le organizzazioni criminali hanno intravisto la profittabilità di questo nuovo settore, poco regolato e con controlli molto sporadici. A fronte di un’alta remuneratività, il rischio corso era relativamente basso. La posta in palio era, dunque, alta.

Meteorologia: meteobufale o scienza sociale?

di Giuseppe Lavopa, 27 anni, di Bari

La Giornata mondiale della meteorologia ha esaltato le scienze atmosferiche, allertando contro le meteobufale. Il commento del colonnello Daniele Mocio

Il Colonnello Daniele Mocio
Il Colonnello Daniele Mocio

Comunicare il tempo, per un meteorologo, è diventato difficile. Grazie a internet, infatti, le notizie si susseguono con estrema rapidità. Anche le notizie meteo acchiappano click e condivisioni con messaggi a effetto, sensazionalistici, che talvolta sfociano in meteobufale.  Il colonnello Daniele Mocio, meteorologo volto noto della TV, ha lanciato questo monito durante la Giornata mondiale della meteorologia 2018.

«La meteorologia – ha ricordato il colonnello Mocio – non è ricerca dello scoop, è una scienza che richiede passione, studio e competenze. Il meteorologo deve trasmettere questa passione comunicando dati e misurazioni con semplicità, per metterli al servizio di applicazioni concrete». All’università La Sapienza di Roma, esponenti della comunità meteorologica hanno dimostrato come la meteorologia è uno strumento fondamentale per affrontare le sfide ambientali e sociali imposte dal cambiamento climatico.

Meteorologia e il mondo che cambia: agrometeorologia e cooperazione internazionale

Entro il 2050, la Terra ospiterà 9.8 miliardi di persone. Occorre preservare in maniera sostenibile la fertilità della terra, diminuendo lo spreco di risorse, l’inquinamento e anche i conflitti sociali.

«L’agrometeorologia – ha spiegato Francesca Ventura, docente all’Università di Bologna – studia le interazioni tra suolo, pianta e atmosfera. Si possono prevedere luoghi e momenti propizi alla coltivazione. Grazie all’agrometeorologia, l’Italia è diventata seconda produttrice di kiwi dopo la Nuova Zelanda». Gli agrometeorologi, inoltre, assistono gli agricoltori nella agricoltura di precisione. «Lo studio delle condizioni meteo – ha proseguito Ventura – permette di organizzare l’irrigazione e prevedere la propagazione di agenti patogeni, limitando l’uso di fitofarmaci e risparmiando lo spreco di acqua».

Antonello Pasini, fisico del clima al CNR, ha studiato i nessi tra cambiamenti climatici, desertificazione e crisi internazionali. «Attraverso modelli matematici – ha spiegato Pasini – abbiamo riscontrato che i terroristi reclutano più facilmente seguaci in quelle terre impoverite dal surriscaldamento. Le rilevazioni meteo possono aiutarci a studiare i conflitti ambientali, per organizzare operazioni di pace e integrazione».

Meteorologia e rischio idrogeologico: prevedere per reagire

Il cambiamento climatico sta causando eventi atmosferici eccezionali, da cui dipendono emergenze sul territorio quali frane e inondazioni. Il sistema di allerta meteo della Protezione Civile raccoglie costantemente previsioni meteo, per elaborare scenari di rischio e quindi piani di allerta e prevenzione.

«Le previsioni meteo – ha spiegato Carlo Cacciamani, dirigente della Protezione civile – hanno sicuramente margini di incertezza. Livelli di allerta crescenti garantiscono un livello di prevenzione omogeneo sul territorio e, nel contempo, evitano inutili allarmismi». In caso di forti piogge in una regione, ad esempio, il grado di allerta sarà diverso per ogni località: l’allerta maggiore riguarderà i territori su cui si prevede una maggiore precipitazione.

Meteorologia: scienza (in)esatta

La meteorologia, dunque, fornisce preziosi contributi alla società, seppure in termini di previsioni, scenari, modelli. I media, tuttavia, ci hanno abituato a previsioni meteo fornite con largo anticipo e con toni tutt’altro che moderati. Di qui alle meteobufale il passo è breve. «Una buona previsione meteo – ha ricordato il colonnello Mocio – richiede padronanza del linguaggio, solide competenze e una corretta contestualizzazione dei dati nello spazio e nel tempo. Le previsioni – ha concluso il colonnello – sono sempre giuste, ma il tempo fa comunque quello che gli pare».

Volkswagen: rapporto di sostenibilità 2016

di Rebecca Vitelli, 23 anni, di Carpineto Romano

La sensibilità e la consapevolezza per i temi ambientali è notevolmente aumentata negli ultimi anni, tanto da spingere numerose imprese a redigere un bilancio d’impatto o di sostenibilità, da affiancare al bilancio d’esercizio richiesto per legge. Dietro questa scelta non c’è solo la necessità di uno sviluppo più  sostenibile nel lungo termine, aspetto fondamentale nelle strategie d’impresa, ma anche vere opportunità economiche da sfruttare. Prima fra tutti c’è la possibilità di efficientare i processi produttivi e ridurne i relativi costi, da una parte, intervenendo sugli sprechi e puntando su riciclo e riutilizzo di materiali e scarti di produzione, dall’altro ricorrendo a tecnologie, materiali e pratiche all’avanguardia, che pur comportando un investimento iniziale più elevato consentono, in genere, performance superiori ed un recupero di costi nel lungo periodo. Da non sottovalutare è, inoltre, il fattore reputazionale che deriva da pratiche sostenibili messe in atto dalle imprese. I consumatori, infatti, nelle loro scelte tengono ormai sempre più conto di fattori etici e si orientano verso quelle imprese di cui condividono valori e missioni. È, quindi, importante per le aziende conformarsi a queste richieste del mercato, per non perdere competitività ma, anzi, aumentarla attraverso pratiche etiche e sostenibili.

Tra le imprese che hanno intrapreso questa strada si colloca anche il Gruppo Volkswagen, azienda automobilistica, che racchiude al suo interno 12 marchi, quali Volkswagen Passenger Cars, Audi, SEAT, SKODA,  Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Volkswagen Commercial Vehicles, Scania e MAN. La società tedesca, a partire dal 2011, pubblica annualmente un report sulla sostenibilità del Gruppo, presentando oltre ai progetti in fase di sviluppo e di implementazione, la propria strategia di business, declinata in management, gestione del prodotto, catena del valore e personale, e indicatori economici ed ambientali. L’ultimo report è aggiornato al 12 aprile 2017 e si riferisce all’esercizio economico del 2016, ma contiene anche alcune informazioni relative al 2017. Il report per il 2017 verrà, invece, pubblicato prima di questa estate.

Il diritto di accesso in materia ambientale

tesi di laurea di Lucia Menza, 28 anni di San Cataldo di Bella (Potenza) – Università La Sapienza, facoltà di giurisprudenza.

Il lavoro di tesi è stato condotto seguendo una linea direttrice precisa, cioè: a) la conoscenza delle principali fonti normative a livello internazionale, comunitario e interno; c) la delineazione delle radici storiche del sistema amministrativo legato al tema dell’accesso e, infine, la proposizione di un modello integrato di gestione delle informazioni ambientali funzionale alla partecipazione dei singoli e delle associazioni ambientaliste ai processi decisionali in materia ambientale e alla tutela del diritto di accesso. Ed invero, lo studio condotto in ordine alla normativa internazionale in materia ambientale ha reso evidente la mancanza nel nostro ordinamento interno di un sistema informatico ben organizzato per la gestione delle informazioni in materia ambientale nei principali settori relativi allo stato delle acque, dell’aria, dell’atmosfera e del suolo. Infatti, ciò che è stato rappresentato è la mancanza di chiarezza, organicità e comprensibilità dei dati raccolti a livello regionale dalle ARPA e tale mancanza di organicità si riflette, non solo sulla scarsa conoscenza dei cittadini delle principali problematiche che affiggono i territori interessati dalle informazioni nei settori su indicati, ma si riflette, soprattutto, sui rapporti tra pubbliche amministrazioni e le aziende che sul territorio svolgono le proprie attività produttive. Ed invero, si è rilevato che la gran parte degli sforzi condotti dal Legislatore per la creazione dei siti internet dedicati alle ARPA regionali e, dunque, alla pubblicazione dei dati raccolti sullo stato del territorio, si sono rivelati fallaci, poiché, i dati vengono riportati in maniera incompleta, senza alcun tipo di spiegazione necessaria a persone, con una media conoscenza scientifica, quale la maggior parte degli utenti, di poter accedere all’informazioni su esposte.

Fossilizzarsi sul progresso: conflitti territoriali e sviluppo locale nel brindisino

articolo di Riccardo Totano, 28 anni, di Mesagne (Brindisi)

Fino a 44 morti l’anno, direttamente imputabili alle emissioni inquinanti della centrale termoelettrica a carbone “Federico II” di Brindisi, secondo uno studio di tre ricercatori del CNR pubblicato dalla rivista International Journal of Environmental Research and Public Health.
Neanche questo dato allarmante sembra, ad oggi, in grado di scatenare un conflitto locale nel territorio brindisino.
Oggi gli strumenti a disposizione degli amministratori locali, in termini di disciplina ambientale, di assoluto primo piano riguardo alla trasformazione dei territori che governano, si scontrano sempre più con problemi di gestione dei conflitti ambientali, intesi non tanto come classici conflitti tra “inquinatori” ed “inquinati”, quanto come contrapposizione di aspirazioni contrastanti, tutte apparentemente legittime, e differenziate soltanto da una diversa concezione di quali siano i beni che vanno prioritariamente salvaguardati e le procedure necessarie per affrontare il problema. 
Le situazioni complesse ed instabili che si vengono a creare costituiscono terreno fertile per la nascita e lo sviluppo di conflitti.
I conflitti riferiti alle politiche ambientali, territoriali e paesaggistiche si presentano in diverse modalità: mobilitazioni preventive, figlie di una società civile sveglia e attiva, che fanno pressione su determinate scelte normative; opposizioni anche verso decisioni di tutela ambientale o paesaggistica o, addirittura, verso la realizzazione di impianti per energie rinnovabili. 
In tutti i casi, il conflitto, più che un’opposizione a qualsiasi decisione, rappresenta una crescente domanda di protagonismo dei cittadini nei confronti di un territorio vissuto e costruito collettivamente.
Sempre più spesso progetti di interesse generale finiscono per arenarsi di fronte alle divergenze tra gli esperti, le amministrazioni pubbliche e le proteste locali, la cui rilevanza porta con sé dei costi politici, economici, sociali e psicologici.
Tuttavia, accanto a situazioni ben note alle cronache nazionali ed internazionali, ne esistono altre che, seppur gravissime, continuano ad essere quasi del tutto ignorate dai mezzi di comunicazione, utilizzate in maniera speculativa dalle classi politiche centrali e locali e, aspetto ancor più grave, sottovalutate dalle popolazioni direttamente coinvolte. Tra queste, vi è Brindisi.

The Limits to Growth

Articolo/inchiesta di Rebecca Vitelli, 22 anni, di Carpineto Romano

Una delle convinzioni più radicate dell’era moderna è certamente l’inesorabile e inarrestabile crescita del progresso. È il cosiddetto mito del progresso, sviluppatosi nel XVIII secolo con l’Illuminismo, che si fonda sull’idea che l’uomo, grazie allo sviluppo ed ampliamento delle proprie conoscenze, possa riuscire a dominare la realtà, la natura e costruire una società sempre migliore. Ogni avanzamento, infatti, viene visto come sommatorio e positivo, secondo una visione meccanicistica. L’entusiasmo prodotto dal progresso scientifico sembra non fermarsi mai ed è, anzi, rafforzato dalle continue innovazioni e scoperte tecnologiche. L’uomo si convince di poter controllare ogni cosa o quasi e le risorse disponibili vengono sfruttate in modo indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per un loro eventuale esaurimento. Il giorno in cui non saranno più disponibili, o diventeranno irrimediabilmente scarse, è visto come lontano, un puntino all’orizzonte che appartiene ad un futuro tutt’altro che prossimo. La società contemporanea con il suo stile di vita frenetico, orientato al consumismo, sta minando le basi del benessere e la stessa sopravvivenza delle generazioni future, come se non fosse nostro compito consegnare un ambiente, almeno non peggiore di come lo abbiamo ereditato.
Il concetto di sostenibilità ambientale è, ormai da anni, sulla bocca di tutti, se ne dibatte animatamente, ma nel concreto poco è stato realmente fatto; oggi, invece, è più che mai indispensabile un cambiamento reale e tangibile.