Zero metri sul livello del mare

di Lucia Lenci, 29 anni di Roma, e Agnese Metitieri, 28 anni, di Rocca di Papa (Roma)

Gli esperti concordano: il cambiamento climatico è in atto e l’uomo ne è il principale artefice. Gli impatti, non ugualmente distribuiti sul pianeta e per questo difficili da percepire, sono enormi. Fenomeni di stress biofisico, legati all’aumento degli eventi meteorologici estremi, all’innalzamento del livello dei mari e alla progressiva desertificazione, mettono a rischio gli equilibri ambientali, geopolitici ed economici attuali. A risentire gli effetti maggiori di questa trasformazione saranno i paesi più vulnerabili. Tra questi alcune isole del Pacifico, che vedono la loro stessa sopravvivenza minacciata dalle conseguenze del surriscaldamento globale.

Secondo stime dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’aumento del livello del mare in questi piccoli stati insulari tra il 1950 e il 2009 è stato tre volte maggiore della media mondiale, crescendo di 3.2 mm in media, in rapporto agli 1.5 mm dei secoli precedenti. In prospettiva, alla fine del secolo, le precipitazioni aumenteranno del 2% ed il livello dell’acqua si innalzerà di circa mezzo metro. Se questo scenario si concretizzasse, arcipelaghi-stato come quelli di Kiribati, Vanuatu e Tuvalu, con un’altitudine media di 2 metri sul livello del mare, rischierebbero in pochi anni di essere parzialmente, se non completamente sommersi. Di questo passo, un terzo della barriera corallina è destinata a sparire. Un duro colpo anche per il settore di maggiore sostentamento economico dell’area, quello turistico, il cui volume d’affari negli ultimi anni ha subito una drastica contrazione. Proprio il turismo, lo sviluppo demografico e la costruzione di infrastrutture sulle coste hanno contribuito a rendere le isole sempre più vulnerabili. Certa è anche la relazione tra cambiamento climatico ed emergenza sanitaria dovuta alla diffusione di malattie come la febbre dengue e la malaria. Una situazione che, secondo il gruppo intergovernativo di esperti sul clima, può solo peggiorare se non si prendono ferme decisioni in rapporto alle emissioni consentite. In accordo con gli studi condotti dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, l’IPCC individua l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi centigradi. Questo da un lato eviterebbe che siccità, inondazioni e tifoni compromettano le attività di pesca e raccolta del corallo cui si dedicano le popolazioni degli stati insulari in via di sviluppo. Dall’altro conterrebbe i danni per la produttività agricola e la sicurezza alimentare degli abitanti. Maggiore frequenza di parassiti ed erbe infestanti, erosione del terreno e perdita della fertilità rischiano inoltre di diventare driver per flussi migratori incontrollati.

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Controllo dei danni subiti in seguito a un’inondazione nello Stretto di Torres. La mancanza di modelli in grado di fornire dati certi e a lungo termine sulla frequenza e l’intensità delle precipitazioni, sulla velocità e direzione del vento, sul livello del mare, sulla temperatura dell’oceano e sulla sua conseguente acidificazione rende molto difficile una previsione sul futuro di queste isole. (credits TSRA Torres Strait Regional Authority)

La situazione si rivela tuttavia complessa sotto diversi livelli: mancano dati certi per le piccole realtà e quelli che si hanno non sono generalizzabili a tutta l’area. Ogni isola diventa così un microcosmo per il quale è necessario trovare risoluzioni specifiche. In questo panorama, resilienza è la parola chiave. L’adattamento alle condizioni presenti e future consentirebbe di migliorare la vita delle popolazioni autoctone e di limitare, laddove consentito, la tendenza alla migrazione verso altri Paesi in risposta alla scarsità di risorse. Nelle isole Salomone e Marshall, come in molte altre nel Pacifico, mantenere la diversità agricola, puntare su energie rinnovabili, convertire le strutture per renderle più eco-sostenibili e costruire barriere adeguate, sono tra le necessità inderogabili. Adattamento non implica, infatti, accettazione passiva senza puntuali decisioni.

Secondo uno studio svolto dalla Commissione Economica e Sociale per l’Asia ed il Pacifico (ESCAP) dal 2005 al 2015 su tre isole del Pacifico, la probabilità che i residenti di Kiribati e Tuvalu si spostino è del 70% nel caso in cui il raccolto non migliori, non diminuiscano le tempeste e il livello del mare. 35% è invece la probabilità per gli abitanti di Nauru a parità di condizioni. Se nel 2055 è previsto un incremento della migrazione del 100% a Tuvalu, in alcune isole è attivo già ad oggi un programma di adattamento climatico per le comunità, che possono così affrontare questa sfida muniti di strumenti più appropriati possibile. “Con le previsioni fatte fino ad ora, le nostre isole saranno sommerse tra 100 anni. Una delle strategie è di innalzare il livello delle barriere per contrastare le inondazioni. Dovremmo spostare alcune abitazioni sulle colline, lontane dalla costa, ma questa soluzione non è applicabile a tutti gli stati insulari”, dichiara Joseph Elu, presidente dell’autorità regionale dello Stretto di Torres (TSRA) tra Australia e Papua Nuova Guinea. “Migrare non è un’opzione per ora: stiamo cercando di impegnarci il più possibile per salvare la nostra casa. Ma è necessario avere un piano di azione a lungo termine”, continua Elu.

Tracciare delle politiche sovranazionali di controllo degli spostamenti e investire in favore dello sviluppo sostenibile appare l’unica via percorribile per limitare gli effetti del cambiamento climatico e tenere in vita l’economia dell’area. A fronte dell’enorme sfida che alcuni dei suoi esponenti sono chiamati ad affrontare già oggi, il genere umano nella sua interezza dovrebbe armarsi per combattere contro gli effetti di un cambiamento epocale che lui stesso ha innescato. Una nuova guerra mondiale, questa volta senza schieramenti opposti, ma su un fronte comune. Per la salvaguardia del futuro della nostra specie.

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