Heliouge (11694)

Aureliana La Pusata, 16 anni, Barrafranca (Enna)

Il cantore si esibiva di fronte a mille occhi inespressivi di androidi senz’anima:

“Cantami, Musa, del mondo i colori
quando la stella splendeva di giallo,
canta del tempo in cui c’erano i fiori
per questo mondo di ferro e cristallo…”

Qualcuno tra il pubblico sorrise mostrando un ghigno di metallo e il cantore, in cuor suo, si rallegrò di non essere uno di loro. Si rallegrò di non essere tanto forte come quelle macchine che governavano il mondo, si rallegrò di non avere la prontezza di un calcolatore nell’elaborare dati. Si rallegrò, semplicemente, del suo essere uomo e un lampo d’orgoglio balenò nei suoi occhi vivi. Le parole uscivano dalle sue labbra con dolcezza e passione per una realtà avvolta dalla leggenda:

“… Canta, Memoria, la terra del Sole,
rammendaci il verde manto del mondo,
azzurro era il cielo, grigie le gole,
il mare blu, tempestoso e profondo.

Terra ch’è rossa, ch’è nera, ch’è d’oro
per la fucina di Efesto infuocata,
terra che porta nel cuore un tesoro
la cui esistenza da tempo è celata…”

Gli androidi tacevano, forse ascoltavano; il cantore li osservava smarrito, era finito lì per caso, o forse per merito, era stato un professore, e come tutti gli umani subordinato da tempo alle macchine.
Gran conoscitore di mitologia, il suo compito era ormai diventato quello di allietare le serate di quelle macchine così simili a lui:

“…non perle, rubini, smeraldi o diamanti,
ma molti preziosi ancor più importanti.”

Un sonoro applauso partì dal pubblico, ed egli s’alzò piegandosi in un mezzo inchino. Sogni. Solo sogni, leggende, eppure… eppure cantava da tempo la stessa storia, e pian piano si convinceva che, in fondo, vi fosse celata una verità. Che forse quella terra era esistita, o esisteva da qualche parte. Che forse non era una visione ispirata dalle Muse, ma un’esperienza vera, concreta, vissuta coi sensi oltre che con la mente. E fu quella sera che prese una decisione, quella che in un primo momento gli parve un’idea folle.
“Grazie” disse sommessamente, poi s’avvicinò a un androide che sedeva su un alto seggio dagli ampi braccioli “Signore…” cominciò “…vorrei parlarti di una cosa. Ma in privato, oh…e… senza fretta, quando più ti conviene…”.
“Amici…” disse la figura umanoide alzandosi, con voce profonda “…è stato un piacere avervi qui, com’è stato un piacere ascoltare il nostro buon cantore, io vi lascio e, se volete, continuate senza di me… ora…” disse poi rivolgendosi al cantore, con voce più bassa “…seguimi.”
Attraversarono un lungo corridoio di vetro, echeggiavano i passi piccoli e veloci del cantore, e ad intervalli regolari, quell’eco s’intrecciava al suono prodotto dai lunghi e lenti passi dell’androide. Egli non era mai stato in quell’ala dell’immenso edificio, in cui busti in cristallo ritraevano volti severi di grandi sapienti del passato. Se ne stupì: come mai quella macchina, sulla lunga strada che portava alla sua dimora, aveva posto memorie di uomini? Ma non osò domandare, l’androide sorrise del suo stupore, e il cantore vi vide un sorriso quasi umano. Tutto, nella stanza in cui entrarono , gli apparve infinitamente grande. Si sentì catapultato in una dimensione di sogno, come se i suoi sensi percepissero una realtà solo apparente; era un immenso regno di vetro e vi regnavano giochi di specchi, e il cristallo delle pareti, finemente lavorato a formare dei piccoli prismi, di giorno doveva certo proiettare in quella stanza l’intero spettro dell’iride.
“Cosa dovevi dirmi, Ado?” la voce dell’androide interruppe il flusso dei suoi pensieri, il cantore alzò gli occhi rimanendo muto, pensando fosse stata tutta una pessima idea, ma qualcosa, al di fuori del corpo e della mente, come una forza estranea alla propria volontà, gli mosse la lingua per farlo parlare.
“Dovrei essere bravo con le parole…” cominciò “…ho insegnato a lungo e sono avvezzo a parlare, ma oggi mi risulta particolarmente difficile, difficile perché forse è solo uno strano scherzo dell’intelletto che fa prender forma a qualche mia folle idea. Oggi ho cantato il proemio dell’ Heliouge, ho raccontato questa storia ai miei alunni per anni, ho ripetuto mille volte quei versi con lo stesso fervore della prima, non ho inventato nulla, non sono un aedo, anche se il mio nome, in greco, rimanda al canto. Sono un semplice rapsodo, che cuce insieme e dà voce ai miti del passato… ma da un po’ di tempo quelle parole risuonavano nella mia mente come una verità celata, non come semplice leggenda, io credo che quella terra che ho raccontato, esista o sia esistita davvero.”
Negli occhi dell’androide egli vide balenare una scintilla di vita, ancora una volta quella macchina tradiva frammenti d’umanità, ma quella luce svanì, coperta dalla voce metallica della macchina.
“Cosa intendi, perché questi pensieri?” domandò con aria severa.
“Tutto è chiaro, evidente, già dal proemio che ho cantato stasera… basta semplicemente quello per capire… si canta della Terra del Sole. Omero, nell’Odissea, racconta che Ulisse, con i suoi compagni, sbarcò sulle“Spiagge della Trinacria isola, dove/Pasce il gregge del Sol”, il gregge del dio Sole pascolava sulle spiagge della Trinacria isola, ovvero la Sicilia. Quella terra legata al sole e al fuoco. “Terra ch’è rossa, ch’è nera, ch’è d’oro/per la fucina di Efesto infuocata”, si canta nell’ Heliouge. La terra “rossa e nera” è un chiaro riferimento a un vulcano… ed Eliano parla del culto di Efesto presso la città di Etna, che fu un’antica città siciliana e porta il nome dell’omonimo vulcano…” esitò un istante, gli occhi della macchina si posarono sopra di lui per interminabili secondi.
“Dunque?” domandò, infine, l’androide.
“… dunque, lasciami partire, dammi dei compagni ed un mezzo e giungerò nella Terra del Sole.”
“Vedi, Ado… laggiù è ormai terra bruciata e nera, non è più un’isola, è un immenso vulcano, sarebbe un viaggio vano, ed io non posso permettermi di investire forze in un’impresa inutile, se non folle…”
“Ti porterò il tesoro promesso dalla leggenda, qualcosa di preziosissimo, a quanto dice il mito!”
“Tu mi prometti un tesoro proveniente da un nuovo El Dorado. Ma non hai prove, se non i versi di un antico mito.”
“La prova giungerà al mio ritorno. Ti porterò il tesoro. Ti porterò la consapevolezza che il viaggio non è stato vano!”

Le sfere celesti parvero fermarsi e la voce del cantore fu come inghiottita dal silenzio. Un velo di tristezza coprì gli occhi dell’androide che si perse a guardare il mondo lontano oltre le vetrate, e quel regno di cristallo parve freddo e inospitale sia all’uomo che alla macchina, e tutto fuori era grigia terra e nerofumo, e grigio il cielo e le acque lontane. E non per effetto della notte, delle tenebre, era un grigiore perenne della consistenza dell’acquarello.
“Ado… tu sai tanto. In te il mito vive come fosse reale. Narrami, dunque, se vuoi, il mito delle cinque età.” disse l’androide continuando a guardare fuori.
E il cantore narrò dell’aurea razza di uomini mortali, che vivevano come dèi. Tempo in cui la terra era feconda e regnava la pace. Poi parlò della razza molto inferiore, d’argento. Razza di uomini stolti. Poi la razza di bronzo, violenta e terribile. L’età degli eroi più giusta e migliore.

“Oh se non mi trovassi tra gli uomini della quinta generazione, ma fossi morto prima o nato dopo! Ora infatti c’è la stirpe del Ferro…”

“Qui si sbagliava Esiodo” l’interruppe la macchina “… nascere dopo non sarebbe servito a nulla. Egli ha parlato di cinque età, perché cinque arrivò a conoscerne. Io dico che le età sono sette, e dopo il ferro è giunta l’età del Consumo che ha privato la terra della linfa vitale, che ha triturato, sfruttato, demolito, abbattuto, ogni risorsa, logorato ogni speranza… senza sosta, senza riuscire a contenere l’insaziabile bisogno dell’inutile, aprendo le porte al nostro tempo…” esitò osservando l’orizzonte “…l’età della Polvere. Ti darò la nave e l’equipaggio.” riprese “ma ora va’ a dormire, questo mondo non è bello già di giorno, figuriamoci la notte.”

Una scossa percorse la schiena del cantore, ed egli rimase in piedi, la sua voce inghiottita nuovamente da quell’imponente silenzio, annuì senza dire nulla e ripercorse l’immenso corridoio. Si ritirò nella sua stanza e presto abbandonò la realtà rifugiandosi nei sogni.
Lo svegliarono, come ogni mattina, i passi pesanti degli androidi che attraversavano velocemente i corridoi di quel palazzo di cristallo, nella sua mente si facevano spazio le immagini della sera prima, gli occhi quasi umani della macchina e l’aggiunta al mito delle cinque età e quell’improvvisa decisione di sostenere la sua folle idea, la promessa di un mezzo e di un equipaggio. Guardò fuori, il grigiore persisteva, il disco nel cielo emanava una fredda pallida luce, “troppo fredda” disse tra sè “ troppo fredda per appartenere ad una stella” Da lontano giungeva della nera fuliggine e da una struttura di metallo usciva una moltitudine di uomini con le vesti del colore del carbone, e dal lato opposto atterravano e decollavano migliaia di oggetti volanti, dalla forma di uovo allungato. Più in là, all’orizzonte, lo skyline, privo di contorni, della Città Nuova ancora addormentata.

Sotto gli edifici della Città Nuova, tra labirinti sconosciuti alle macchine e all’uomo, viveva quella che si proclamava la Resistenza, una coalizione di pochi uomini, decisi a restare tali, decisi a non accettare il governo degli androidi. La scritta “Resistenza” appariva di tanto in tanto sugli edifici della Città, nei colori più sgargianti, come un punto colorato su quella distesa grigia e inconsistente. La “e” dopo la “r” della parola, era doppia, come a voler indicare non solo l’opposizione alle macchine, ma la voglia di tornare ad esistere come uomini “Re-Esistenza”, appunto, esistere di nuovo.
“Egle…” un ragazzo sui trent’anni, dall’aria timida con gli occhi verdazzurri, entrò in una stanza avvolta dalla penombra, di fronte a un gigantesco schermo se ne stava una donna più o meno della stessa età.
“Che c’è, Glauco?” domandò lei voltandosi.
“Le macchine, cioè, il capo di quelle macchine… vuole parlare con te.”
“Non voglio avere niente a che fare con loro, lo sai bene.”
“Si, ho provato a dirglielo, ma… dice che è importante.”
“Digli che non mi fido. Che non sono una sciocca.”
“Ha parlato di un uomo” fece il ragazzo diventando serio. La donna sgranò gli occhi e corrugò la fronte: “un uomo?” domandò.
“Un cantore del suo palazzo, Ado. Mi ha detto queste parole: “quell’uomo ha bisogno di altri uomini, fammi parlare con il vostro leader.” Io gli ho spiegato che non ci alleiamo con le macchine, ma ha passato tutta la notte alle Porte…”
“Era solo questa notte?”
“Si… i nostri non hanno avvistato altre macchine.”
“Ha parlato direttamente con te?”
“Si…”
“Digli che lo incontrerò nell’Edificio 213 tra un’ora.”

L’androide entrò nell’Edificio 213; era solo, come le aveva già detto Glauco, l’Edificio era interamente di metallo, e ad intervalli regolari erano poste fasce in vetro che ne percorrevano il perimetro permettendo l’entrata della luce.
La donna stava in piedi con le braccia incrociate e i lineamenti del volto tesi, con le labbra serrate e gli occhi fermi, fissava quella macchina che avanzava a passo sicuro verso di lei.
“Buongiorno” disse la macchina fermandosi a pochi passi da lei.
“Buongiorno” il tono di Egle era pacato e inespressivo.
“Così il leader della Resistenza è una donna…”
“A quanto pare. Cosa vuoi?”
“Degli uomini di cui possa fidarmi.”
“Siamo i nemici, noi. Non credi di essere nel posto sbagliato?”
“No. Perché è per un uomo, mio cantore, che mi servono dei compagni.”
“Nessuno di noi verrà a farti da giullare di corte” tagliò lei.
“No… è per un viaggio, una missione.”
“Hai tante macchine, più forti di noi, che possono accompagnare il tuo cantore” nel tono di lei cominciò a farsi spazio una punta di ironia.
“Io non ho bisogno della forza delle mie macchine.”
“E di cosa?” domandò lei agitando le braccia “Di cosa?”
“Dei… sentimenti” rispose la macchina a mezza voce “della capacità di credere ancora in qualcosa.”
“E tu cosa ne vuoi sapere dei sentimenti?” continuò la donna alzando il tono della voce “cosa ne sai, ammasso di ferraglia?”
L’androide parve ignorare l’insulto: “So abbastanza per capire che le macchine non possono aiutare il cantore. Egli vuole andare alla ricerca della Terra del Sole narrata nell’Heliouge.”
“È tutta una favoletta. Tu, capo supremo delle macchine, stai davvero a sentire quell’uomo? Il mondo di Ieri è perduto. Io non riesco nemmeno a immaginarlo. È qualcosa di lontano e indefinito, e se è perduto un mondo che forse è stato reale, perché dovrebbe vivere una leggenda?”
“Il mondo di Ieri è perduto…” ripeté l’androide e bassa voce, e lei ne colse una punta di malinconia, un sentimento… qualcosa di umano. Ma quel pensiero tornò fulmineamente nel più recondito angolo della sua mente. Una cieca rabbia verso le macchine le invase il cuore.
“Va’ via! Io non ti aiuterò. Nessuno dei miei uomini tratterà con le macchine, simili a noi fuori, circuiti e metallo dentro. Va’ via, automa privo d’anima.”
A queste ultime parole la macchina indietreggiò con aria offesa, uscì dalla stanza del colloquio richiudendo piano la porta, Egle si lasciò cadere su una poltroncina del colore del metallo. Glauco entrò senza far rumore, lei lo vide ma non se ne curò. Il silenzio intorno a loro pesava come piombo.
“Sono sicuro di aver visto delle lacrime” disse il ragazzo.
“Non sto piangendo…” rispose lei.
“Non parlo di te. Ma della macchina.”
La donna lo guardò sbalordita.
“Lacrime?”
“Piangeva. Un pianto silenzioso.”
“Ma le macchine non possono piangere.”
“Appunto Egle, le macchine no, ma gli uomini…”
Lei si morsicò il labbro e prese a fissare un punto indefinito nel vuoto.
“È un cyborg… è… è in parte uomo. Glauco… avrei dovuto accogliere la sua richiesta d’aiuto. Almeno lasciarlo spiegare. Va’ a chiamarlo.”
Gli occhi verdazzurri del ragazzo si colmarono di sorpresa, ed egli corse a chiamare quello che forse, non era del tutto metallo e circuiti.
“Aspetta!”gridò il ragazzo all’androide “Egle ha deciso di ascoltarti.”
“Suona così strano” pensò la macchina “Quello che governa sono io, eppure lei sembra tanto potente, ed io appaio come il popolano che chiede ascolto al Re.”
Ripercorse il corridoio e tornò nella stanza di metallo.
“Chi eri?” domandò lei. “Chi eri prima di diventare ciò che sei?”
L’androide, o quello che ormai lei sapeva essere un cyborg, parlò: “Ero Alastar, ragazza, e c’ero quando il verde ancora popolava qualche angolo di mondo. Ho visto pian piano sfiorire i campi, ho visto uomini morire, le macchine prendere il sopravvento. Ho visto la forza sostituire la ragione, il ferro sostituire la carne. E da uomo, divenni macchina. O meglio, cyborg. Avevo combattuto in quella guerra che voi conoscete come l’Incubo, di cui non sapete nulla se non il nome. Ed io quella guerra la ricordo, perché fu allora che il mio corpo pian piano abbandonò ogni forma d’umanità, reso simile alle macchine dagli uomini, affinché sopravvivessi alle ferite della guerra. Ma le macchine conoscevano i cyborg, tanti, oltre a me, erano diventati uomini bionici… pericolosi poiché dotati dell’intelletto dell’uomo e della forza delle macchine, dovevano essere annientati. Io sopravvissi, rinnegai la mia umanità e mi finsi macchina. Ma quella terra a colori la ricordo, e so che non è una leggenda… chiedo aiuto agli uomini, perché il mondo che ricordo è sempre stato loro.”
“Hai tradito gli uomini…” disse Egle a mezza voce.
“Ho tentato di non tradire me stesso.” rispose lui.
La donna fece un mezzo sorriso: “Partirò io col tuo cantore” decise “e Glauco, e troverò altri. Gli uomini saranno pronti domani mattina.”

Il cantore fu mandato a chiamare, il disco luminoso era ormai alto nel cielo. Ado fu lieto di aver indovinato l’effetto dei prismi nella stanza di cristallo.
“Tutto sarà pronto domani mattina” lo informò Alastar.
“Chi saranno i miei compagni?” domandò il cantore.
“Uomini. Nessuna macchina intraprenderà con te il viaggio.”
E quel giorno, ad Ado, parve essere soltanto quel breve colloquio. Durò un secolo e un istante. Il tempo cristallizzato e allo stesso tempo velocissimo. Il cantore si ritirò nelle sua stanza, e quando giunsero le tenebre, allietò come sempre la serata delle macchine, ma Alastar non sedeva sull’alto seggio. Si domandò se l’assenza dell’androide fosse collegata all’imminente partenza del suo equipaggio, e da questo pensiero, come naturale reazione a catena, altri pensieri giunsero da soli a creare un disegno impreciso, come un puzzle incompleto. Chi sarebbero stati i suoi compagni? Con che mezzo sarebbero partiti? E se il viaggio, come credeva la macchina, fosse stato vano? Recitando gli ultimi versi, s’alzò, e fece, come d’abitudine, un mezzo inchino, uscì dalla grande sala, e dalla sua dimora, attese insonne il giorno.

“Cos’è? Cosa vuol dire tutto questo?” il Colonnello giunse presso la riva del mare, Alastar dava ordini ad altre macchine, affinchè sistemassero il Sottomarino attraccato poco distante. “Spiegami, Alastar, cosa vuol dire ciò!”
“Un viaggio, parte il mio cantore ed altri uomini.”
“Dove vanno?”
“A cercare una cosa per me.”
“Cosa?”
“Questa informazione non ti compete, Carroll…”
“E di noi, chi andrà con loro?”
“Nessuno. Nessuna macchina. Le macchine… sono troppo preziose, non voglio rischiare.”
Carroll rimase un poco a fissare il mare “Dove hai trovato gli uomini?”
“Alla Città Nuova” rispose Alastar, e in fondo, era una mezza verità.
Il Colonnello si allontanò lentamente, mentre il sottomarino cominciava ad allontanarsi, l’Equipaggio, nascosto dai flutti, partiva.

Carroll, con un impeto innaturale, entrò nel quartier generale: “Dalla baia sta partendo un sommergibile, dovete seguirlo” ordinò agli androidi presenti. “Prendete un mezzo qualsiasi, e raggiungetelo.”
“Ma Alastar ci ha detto di star tranquilli… quegli uomini se la caveranno” s’intromise un androide da poco in funzione.
“Guardati, sei nuovo nuovo, sembri ancora quasi umano.” rispose il Colonnello “Quegli uomini hanno un compito importante, non so dove siano diretti o cosa cerchino. Alastar ci sta ingannando tutti, chissà cosa troveranno, qualcosa di preziosissimo, certo.”

“Piacere di conoscerti, Ado.” disse Egle porgendogli la mano. “Mi spiace non aver avuto modo di conoscerti prima, ma è accaduto tutto in fretta, la richiesta di Alastar, il reclutamento dell’equipaggio, ho scelto i miei uomini più fidati. Lui è Glauco” cominciò poi voltandosi verso il ragazzo dagli occhi verdazzurri “conosce bene il mare, sarà la nostra guida. Lei è Ida” disse poi indicando una ragazza dalla carnagione scura, appena ventenne “è la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto ed è la più giovane del nostro equipaggio. E questo ragazzo è suo fratello Folco, è instancabile. Infine c’è Zara, che in fondo ti somiglia, le piace la poesia ed è riuscita a finire gli studi prima dell’ultima guerra. Io sono Egle, e sono figlia della guerra. Di me diranno gli altri, se vorranno, o mi conoscerai avendomi come compagna di viaggio.”
Il sottomarino attraversava i flutti, poco distante un’ombra nera li seguiva.
“Qualcosa ci sta seguendo, ci sta addosso da 2 ore…” affermò Glauco “…è grande e grigiastro.”
“Forse è una balena…” azzardò Folco.
“I grandi Cetacei sono scomparsi da tempo… e poi va troppo veloce.”
“Fammi guardare lo schermo.”
“Non si vede niente, solo una sagoma imprecisa.”
Folco diede una leggera spinta al compagno, piazzandosi col viso sullo schermo.
“Non c’è un modo, che ne so, per zoomare?”
“Si, ma non risolveresti nulla, resterebbe la stessa forma imprecisa ma più grande.”
I due discutevano animatamente. Poco distante Ado si rivolse ad Egle che fissava i due ragazzi preoccupata:
“Che c’è? Perché insiste tanto? Il mare è molto trafficato in questo periodo.”
Egle non rispose, fissava i due e ascoltava il loro discorso.
“Insomma, cerca di ingrandire l’immagine.”
“Folco, sta’ tranquillo.”
“Ci seguono. Le macchine.”
“Non avrebbe senso…” s’intromise Ado “…Siamo partiti col consenso di Alastar.”
“Guardate…” Folco percorse con l’indice i contorni della sagoma sullo schermo “…è un mezzo militare, ha la forma ovulare e un leggero rigonfiamento sul dorso. Sono loro.”
“C’è qualcosa che non so, Ado?” domandò Egle al cantore.
“No… Ti assicuro che non ne sapevo niente…”
“Prova a seminarli!” ordinò lei a Glauco “Questa cosa non mi piace.”
Il sommergibile correva veloce tagliando le acque, l’ombra nera continuava a seguirli ostile e muta. Fu al calare della notte, quando il mare si fece scuro, che i misteriosi inseguitori scomparvero nel nulla.
“Dove sono?” chiese Egle “Dove? I radar percepiscono qualcosa?”
“No. Niente. Scomparsi” si sentì rispondere dal ragazzo con gli occhi verdazzurri
“Non è possibile…”
“Dai, Egle, forse seguivano la nostra rotta per caso.”
“Un mezzo militare non segue la rotta di un insignificante sottomarino per ore, così per caso…”
“Ha ragione Egle” s’intromise Ida “Hanno seguito la rotta mercantile, e non avrebbe senso, dal momento che vi sono diverse rotte prestabilite per i mezzi militari. Quando con Folco siamo riusciti a programmare un androide ed infiltrarci sul Sommergibile Idra, il mezzo era predisposto per seguire un unico percorso, lontano dalle rotte mercantili, per non intralciare i commerci.”
“Voi avete fatto cosa?” la voce di Ado fu quasi un grido di sorpresa.
“Si sono infiltrati nell’Idra. Mi pare fosse abbastanza chiaro.” rispose Zara
“Ma l’Idra non è il sottomarino che due anni fa è esploso nel Pacifico?” domandò il cantore.
“Si… quello che recava aiuto militare agli androidi di Vladivostok, contro la Re-Esistenza.”
“Ma quindi voi… siete ribelli?”
“Traine le tue conclusioni dai pochi indizi che hai” ridacchiò Zara.
“E perché Alastar ha… insomma… scelto voi?”
“Chi poteva aiutarti? Gli inetti che vivono negli immensi grattacieli della Città Nuova, uomini privi d’anima come le macchine? Incapaci e rassegnati alla loro eterna subordinazione?” la voce di Egle fu limpida e decisa.
“Ecco… ma in questo modo, non state servendo il vostro nemico?” ribatté il cantore.
Il tono di Egle si fece scuro, più profondo del mare, le parole parvero uscire a stento dalla sua bocca:“Ci sono sogni e utopie per cui non si fanno distinzioni tra amici e nemici…”
Una strana atmosfera si instaurò tra i membri dell’equipaggio, nell’aria echeggiava qualcosa di non detto, tutti tacquero a lungo, rimanendo sempre attenti ai radar e agli schermi che scrutavano gli abissi. Il giorno giunse, Egle non era riuscita a prender sonno, dei misteriosi inseguitori si erano perse le tracce, eppure lei aveva vegliato tutta la notte, sola nella grande sala dei comandi. Aveva ripensato ad Alastar e ripetuto nella sua mente le parole del cyborg. Era tornata indietro coi ricordi, fin dove la sua memoria poteva condurla, e le immagini della Strada Maestra nella Città Nuova comparvero di fronte ai suoi occhi, come in un sogno, come in un incubo, fiamme ed esplosioni, e tanta, troppa gente che si riversava disordinatamente in strada, vedeva macchine portare via uomini, i suoi compagni di giochi scomparire. Poteva avere forse 12 anni, ed era corsa sotto i resti della Grande Quercia, il tronco mozzato dell’ultimo albero che aveva vissuto chissà quanti secoli prima, c’era anche un bambino con gli occhi verdazzurri, lui veniva dal mare, le aveva detto, anche la Baia era controllata dagli “uomini di ferro.”. Era spaventato e solo, e lo era anche lei, e fu allora che nacque la promessa della Quercia…
Glauco era stato il primo a svegliarsi e l’aveva trovata lì, sola, seduta sulla poltroncina blu accanto al posto del pilota.
“Che pensi?” le domandò, lei trasalì, come si destasse da una visione.
“Nulla Glauco, davvero…” rispose con voce debole, che somigliava quasi ad un sospiro “…quando arriveremo?”
“Ancora qualche ora. Ma hai dormito stanotte?”
“No.”
“Cosa pensavi?”
“Non credo di aver pensato consapevolmente a qualcosa, è stato come un sogno, ho visto immagini aggrovigliate, ricordi.”
“Và a riposare.” le consigliò il ragazzo “E sta’ tranquilla, non ci sono uomini di ferro che possano dividerci, è la promessa della Quercia, ricordi?”
Egle fece un sorriso stanco e senza dire nulla si ritirò nella sua cabina.

“Non perdeteli di vista!” ordinò Carroll dalla terraferma.
“Abbiamo piazzato il localizzatore sul loro sottomarino. Sappiamo esattamente dove sono. Stiamo seguendo una via alternativa” Rispose uno tra gli androidi che si erano lanciati all’inseguimento.
Il Colonnello ghignò, mentre dalla Sala Grande del palazzo di cristallo osservava il mare lontano e quel mondo grigio, immaginando immense ricchezze, da qualche parte oltre le acque.
“Come mai qui, Carroll?” la voce di Alastar fu potente come un tuono.
“Guardo il mondo.” rispose.
“Il tuo sguardo va lontano, oltre il mare.”
“Oltre il mare c’è stata la mia prima missione.”
Alastar la ricordava bene la prima missione del Colonnello, quando Carroll era ancora un soldato semplice, e lui un uomo, un cyborg.

Il Sottomarino attraccò sull’Isola. Terra nera e un immenso silenzio, il cielo azzurro e il mare blu, come nell’ Heliouge, ma dov’erano il rosso, l’oro, il verde narrati nel Poema? L’equipaggio posò i piedi su un’immensa distesa di pietra vulcanica. Ida e Glauco rimasero muti a fissare l’illimitato nulla intorno a loro, le labbra di Egle si piegarono in un sorriso amaro, Folco cominciò a percorrere a grandi passi la costa, nella speranza di trovare un indizio che riportasse a quell’antica terra.
“E se avessero ragione le macchine?” disse, quasi gridò, Zara “Se noi uomini avessimo solo strambe idee in testa? Se la poesia fosse inutile spreco di tempo ed energie e le leggende fossero solo frutto dell’immaginazione?”
“No!” rispose Ado, ma fu tutto quello che riuscì a dire, non sapeva esattamente cosa stesse cercando, ma cominciava a credere che non lo avrebbe mai trovato.
“Guardati intorno!” continuò Zara irritata “Cosa speravi di trovare? Sapevamo fin dall’inizio che la Sicilia era soltanto un immenso vulcano spento… dimmi cosa siamo venuti a cercare qui!”
“Un tesoro.”
“Quindi era soltanto avidità!” esclamò Egle “Lui… Alastar ha mentito. Ha mentito quando diceva di credere nell’esistenza di una splendida terra ancora esistente, voleva solo un tesoro… gli serviva la ciurma, pirati che portassero un tesoro al capitano!”
“No, no… Egle…” riprese Ado “…è stata tutta una mia idea! Io ci credo nella Terra del Sole! E vorrei…” esitò “…vorrei che ci credeste anche voi. Vi chiedo di fidarvi, non di me, ma della poesia. Dobbiamo entrare nel Vulcano, ma dal mare.”
“Dal mare?” domandò Galuco perplesso.
“Non sulla terra dovrete cercare/ giungete al cuore attraverso il mare.” recitò il cantore.
Circumnavigarono l’isola, nulla sembrava somigliare a un varco, quando la bocca di un’immensa grotta sottomarina comparve davanti ai loro occhi.
“Entriamo qui…” azzardò Ado.
“Potrebbe essere pericoloso, non sappiamo cosa ci sia oltre le tenebre.” si sentì rispondere da Glauco.
“Fidati della poesia.”
Il ragazzo varcò la soglia della grotta, tutto intorno a loro era indefinito e buio, il sommergibile proseguiva alla cieca. D’un tratto sopra le loro teste balenò un bagliore azzurrino, ed essi affiorarono al centro di quello che sembrava un lago. Intorno a loro v’era un mondo dimenticato, e il cielo era di pietra e la luce affiorava dai crateri spenti, un mondo nel cuore del vulcano. Ciò che li circondava era privo di nome, perché scomparso da tanto, troppo tempo, nel mondo di fuori e la loro memoria non aveva conservato, forse mai conosciuto quelle immagini e le parole che gli davano forma. Glauco avvicinò il loro mezzo alla riva, e gli uomini scesero, continuando a guardarsi intorno stupefatti. La poesia non li aveva traditi.

“Sono dentro il vulcano!” disse l’androide che stava ai comandi. “Non è possibile!” rispose un altro. “Il localizzatore segna il centro dell’isola, dritto al cuore.” “Cerchiamo un varco, una via sottomarina… Riesci a ripercorrere i loro movimenti?” Gli inseguitori imboccarono la grotta e riaffiorarono nel lago. Ma sulla riva non c’era traccia di uomini, solo il loro sottomarino era attraccato poco distante. L’equipaggio s’era messo in cammino osservando mille elementi sconosciuti intorno a sé.”Dove andiamo?” domandò Glauco, e il cantore recitò con voce chiara:

“La Terra ci guidò, lei decise,
Verso il grande tempio dorato,
Dapprima ci unì, poi ci divise,
Crono conserva il nostro passato.”

Nessuno parve capire, i loro sguardi confusi presero a fissarlo “dobbiamo solo andare avanti…” spiegò “…sarà la terra a guidarci.” Poi prese a ripetere i versi dell’Heliouge a mezza voce, ma nessuno l’ascoltava più, con i volti illuminati e gli occhi vivi i suoi compagni procedevano lungo quello che pareva un sentiero naturale di terra battuta, verso l’ignoto, verso una meta oscura e sconosciuta, che però, in quel luogo di sogno,non poteva essere cattiva. Qualcosa di immenso si presentò di fronte ai loro occhi, qualcosa che pareva una piramide a gradoni o una ziggurat, interamente d’oro, divisa in tre livelli; le entrate raggiungibili da tre rampe di scale, due laterali, una frontale. Ad ogni livello si apriva un grande portale, davanti al quale si ergevano quattro colonne doriche, reggenti un frontone interamente scolpito con figure rappresentanti Scilla e Cariddi. E figure barocche percorrevano il perimetro della struttura. E un mosaico di lapislazzuli e corallo decorava i lati delle scale. In un tripudio di colori e stili, mescolanze di popoli e di mondi sconosciuti agli occhi di quegli uomini, figli dell’età della Polvere.
“Il tempio dorato….” sussurrò Egle, e fu l’unica che riuscì a dire qualcosa, gli altri tacevano, gli occhi spalancati e le bocche semi-aperte, osservavano l’immensa struttura d’oro, che pareva risplendere di luce propria, in mezzo al verde della vegetazione circostante. Alberi a loro sconosciuti circondavano il tempio, alcuni avevano frutti tondi e color arancio, altri frutti gialli dalla forma a ellisse, coi lati schiacciati. E avevano le bucce ruvide a un odore intenso. Odore di agrumi, che erano stati per secoli emblema di quella terra, che avevano colorato l’aria del loro magico profumo per secoli, ma loro non potevano saperlo. A loro tutto era sconosciuto e nuovo, irreale come le immagini d’un sogno. Ida e Folco aspettavano solo di destarsi e ritrovarsi nelle fredde cantine della Città Nuova, riprendere a fare graffiti per le strade, a nascondersi dagli androidi, a sabotare dall’interno riprogrammando qualche macchina per usarla come spia. Zara piangeva silenziosamente. Ado s’avvicinava a piccoli passi verso la gradinata centrale e Glauco stringeva con entrambe le mani la mano di Egle.
Quando il cantore fu ai piedi della gradinata si voltò, i suoi compagni erano distanti qualche passo.
“Andiamo!” li esortò “siamo arrivati fino a qui, dobbiamo vedere cosa c’è dentro!”
Tutti si mossero per raggiungerlo, Glauco teneva ancora la mano di Egle, quasi a farsi forza, come temesse una minaccia vicina.
Oltre le colonne, al primo livello, il portale immetteva in una grande sala avvolta dalla penombra, alle pareti stavano ordinate delle anfore in terracotta, recanti il disegno d’un fiore o d’un frutto e una scritta in latino. Il perimetro della sala era riempito da scrigni contenenti pietre preziose di ogni colore e d’ogni forma.

“Devono essere qui, vedo le loro impronte” il suono di queste parole giunse agli umani come un terribile eco.
“Che razza di mondo è questo?”
“Lascia stare, che t’importa? Sali le scale, non possono essere che dentro.”

“Le macchine!” disse Egle.
“Nascondiamoci” suggerì Folco.
Ma in quell’immensa sala non c’era nulla che potesse servire da nascondiglio. Intanto l’eco dei passi degli androidi si avvicinava sempre di più, non c’era nulla da fare. Sperare? E in cosa?
“Come hanno fatto a trovarci?” chiese Ida “Cosa vogliono?”
“Il tesoro” si sentì rispondere, ma non c’era nulla di umano in quella voce, gli androidi erano in otto, programmati per chissà quale scopo, stavano di fronte all’entrata e osservavano il piccolo gruppo di uomini poco distante “Vogliamo tutto questo…” disse quello a cui Carroll aveva affidato il comando “…guardate che meraviglia! Guardate i colori che si mescolano e rifulgono, il blu dello zaffiro, il verde degli smeraldi, l’azzurro dell’acquamarina. L’unica cosa che non riesco a capire è il perché Alastar abbia mandato voi, uomini, a prendere tutto ciò. Perché non noi? Perché voleva mille ricchezze solo per sé, per il suo potere?”
Gli androidi percorsero disordinatamente la sala, raccogliendo tutto quello che riuscivano a prendere e riponendolo di fronte all’entrata. Gli uomini stavano impietriti a fissare l’azione delle macchine.
“Capitano, cos’è questo?” domandò una macchina, tenendo in mano qualcosa di abbastanza spesso che aveva la forma rettangolare. Il Capitano prese l’oggetto tra le mani.
“Un Libro, forse un Diario” affermò dopo che la sua vista ne fece un’attenta scansione “Gli uomini, tempo fa, ne conservavano le loro memorie. Che idiozia!” poi lo aprì e prese a leggere le prime righe: “Cantami, Musa, del mondo i colori, quando la stella splendeva di giallo… Puah! Poesia. L’invenzione più inutile dell’uomo. Non capisco come Alastar possa averti ammesso a corte, sciocco cantore” emise un suono simile a una risata “Tenetevi le vostre Poesie!” gridò, gettando il libro verso Ado che fece qualche passo per raccoglierlo, tornando poi tra i suoi compagni. “Nulla di tutto ciò giungerà a chi vi ha mandato, neppure voi.” Detto questo esortò le altre macchine ad uscire, portando via le immense ricchezze trafugate, quando tutti furono usciti azionò qualcosa che pareva un laser, le colonne crollarono bloccando l’ingresso.
“Come usciamo di qui, Ado?” Egle scoppiò a piangere nervosamente “hanno preso il tesoro, ci hanno intrappolati qui. Non avrei mai dovuto seguirti… Fammi tornare a casa! Fammi tornare nei sotterranei della città, sempre meglio d’una prigione d’oro e diamanti! Una prigione dalla quale non usciremo vivi!”
Glauco abbracciò Egle tentando di calmarla, avrebbe voluto piangere anche lui, ma non lo fece, non era il momento, e lei, la più determinata di tutti, era crollata, s’era fatta prendere dal panico. Ado pareva non ascoltare, leggeva il contenuto del libro che la macchina gli aveva lasciato.

“Missione compiuta.” il capitano informò Carroll, che ghignò nuovamente soddisfatto.
“A cosa pensi, Carroll?” domandò Alastar, che stava in piedi accanto a lui.
“Alla mia prima missione, lo sai già, Alastar. Lo sai e la ricordi, ero soldato semplice, e anche tu, dicesti, eri un nuovo androide. Non ho idea del perché tu fossi con quei quattro uomini quel giorno…”
Alastar non lo ascoltava più, nella sua mente cominciò a farsi spazio un’eco di versi che si mescolavano a immagini chiare e terribili:

“Il cielo scuro, il mare più nero
menzogne che piano toccano il vero
noi cinque voci della ribellione
celammo a tutti la vera intenzione…”

“Ascoltate!” esordì Ado “Questo manoscritto è l’Heliouge completa!” poi prese a recitare:

“Nascosto il tesoro, persa la guerra
lasciammo piangendo la nostra terra
il ferro scoprì l’umana natura
morire da eroe o tentar la ventura?”

Alastar ripensava agli antichi versi:

“E quattro da eroi si dissero umani
ed io verso l’alto porsi le mani
“Son robot, ferro del vostro livello
loro son cyborg, io son vostro fratello.”

Mentii, tradii per salvarmi la vita
e questa mia parte è forse finita…”

“Carroll, tu sei certo di aver mandato a monte la missione di quei ribelli, anni fa?” domandò Alastar d’un tratto.
“Li abbiamo uccisi tutti” si sentì rispondere.
“C’è una cosa che permette agli uomini di vivere per sempre.”
“Cosa?”
“La Poesia. Dicono.”
“Per questo hai invitato il cantore a corte?”
“Oh, noi siamo macchine, non potremo mai capire pienamente il perché ciò avvenga, l’immortalità attraverso le parole, intendo.”

L’equipaggio ascoltava Ado, Egle piangeva ancora, ma senza singhiozzi, la voce del cantore risuonava piena di emozione, nessuna preoccupazione né paura traspariva dal suo tono, aveva scelto di fidarsi della poesia, lo avrebbe fatto fino alla fine:

“Pensate quello che il mondo divora,
a tutto quel male che lo ha pervaso
alla bella, curiosa, donna Pandora
che lasciò speranza in fondo al vaso.”

“Le anfore!” esclamò Zara “Non hanno portato via le anfore!”
Folco e Ida staccarono un’anfora dalla parete e la aprirono, la ragazza infilò la mano dentro estraendone parte del contenuto.
“Sembrano… sassolini.” disse.
Tutti s’avvicinarono alla ragazza, che teneva in mano l’ignoto contenuto. Ado continuò a leggere i versi:

“Arance, Limoni e Albicocche,
Susine, Timo, Avena e Rape…
molti altri semi dentro le brocche.

Cambiate presto quel mondo infernale,
nei bei frutti sta scritto il mio nome,
con le parole io sono immortale.”

“Semi… sono semi. Servono a far crescere nel mondo di fuori, tutto quello che abbiamo visto circondare il tempio, e tante altre piante…” cominciò Zara “…credevo, mi avevano insegnato, fossero scomparsi da tempo, di fatto noi per vivere inghiottiamo pillole che contengono le sostanze che un tempo dovevano avere i frutti della terra. Quelle macchine non ci hanno portato via niente! Il grande tesoro è ancora qui! È nella tua mano, Ida!”
“Ma…” cominciò Folco “…cosa vuol dire il verso: “nei bei frutti sta scritto il mio nome”?”
“Alastar…” disse Egle a mezza voce.
“Cosa?”
“Le iniziali dei frutti citati: A-L-A-S-T-A-R.”
Tutti rimasero sorpresi da quella scoperta, Egle sapeva qualcosa in più degli altri, ma non volle dire nulla su quella macchina che gli si era rivelata come uomo, come cyborg. Dopotutto, il poema lo narrava da sé.
“Come… come usciamo di qui?” domandò asciugandosi il volto dalle lacrime.
Ed Ado riprese la lettura:

“Una nave veloce oltre le bocche,
per fuggire da questa dimora,
seguite le decorazioni barocche,
dopo quel sole che scalda e ristora.”

Gli uomini si guardarono intorno e Zara s’accorse d’un sole inciso al centro della parete opposta alla porta. “Di là!” disse indicandolo, l’equipaggio si mosse e presto tutti furono di fronte all’astro dorato, e presso quello v’era come una porta ben nascosta, che però riuscirono ad aprire con facilità. Il sole inciso sulla parete si squarciò, e di fronte ai loro occhi comparve un’immensa scala di pietra nera, fiancheggiata da decorazioni che, intuirono, dovevano essere barocche, che conducevano verso un frammento di cielo.
“Prendete un campione per ogni tipo di seme.” disse Ado “Segnate il nome sulle sacche in cui li metterete, dobbiamo portarli là fuori.”
E così fecero, poi presero a salire verso il cielo. Quando furono fuori, le decorazioni barocche continuarono a condurli verso il mare, e lì, attraccata, c’era una nave argentea, probabilmente uno degli ultimi esemplari dell’età del Consumo.
Glauco balzò a bordo. “Beh, che fate? Non salite? Me la cavo anche con questo mezzo!”
L’equipaggio si imbarcò, alla volta del palazzo di cristallo, verso Alastar, che ormai sapevano essere un uomo. Egli, dalla sua reggia, guardava il mare, Carroll se n’era andato, forse a godersi le effimere ricchezze che le altre macchine gli avevano portato.

“Il mio equipaggio sfiorò il fallimento,
scrivo agli uomini d’un altro tempo,
nella speranza d’un cambiamento.”

Sussurrò il cyborg a mezza voce. Contemporaneamente, di fronte ai suoi compagni, Ado leggeva gli ultimi versi dell’ Heliouge.

“Non cercate l’oro, non cercate denaro
non fate il gioco dell’animo avaro.
Conservate i semi, riscoprite il verde
ritrovate ciò che oggi si perde.”

Il mare era calmo, il disco nel cielo emanava una luce arancione, la notte sarebbe sopraggiunta da lì a poco. L’equipaggio guardava le acque benevole. Il mondo sarebbe tornato ad essere degli uomini? Il cantore sorrise, mentre altri versi gli tornavano alla mente, erano versi della “Teogonia” di Esiodo, a parlare erano le Muse, le loro parole suonavano più o meno così:

“…noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare…”

 

cod. conc. 2201105641


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