Rifiuti elettronici: il nuovo petrolio?

Articolo inchiesta di Giulio Foiani e Alessandro Citti, illustrazione di Cristiano Schiavolini, del liceo di Umbertide (Pg), coordinamento di Chiara Fardella

raee
illustrazione di Cristiano Schiavolini

Dal vecchio telefono della Nokia dimenticato in un cassetto al televisore a forma di scatolone lasciato su un polveroso scaffale del garage, fino all’enorme frigorifero della nonna abbandonato in soffitta. Oggetti che anni addietro erano all’avanguardia, oggi li riteniamo spazzatura, ignorando il potenziale economico e una seconda vita che ancora potrebbero avere, lontano da noi.
I Raee, meglio conosciuti come “rifiuti elettronici”, costituiscono uno dei principali business illegali, e pericoli ambientali del nostro secolo, si stima infatti che la perdita dell’industria legale dello smaltimento sia tra gli 800mila e l’1,7 miliardi di euro all’anno. Le schede elettroniche che li facevano funzionare sono costituite da materiali preziosi come oro, argento e rame. Questi elementi sono rari e costosi sulla Terra e recuperarli significherebbe risparmiare risorse, scongiurando un futuro in cui potrebbero scarseggiare. Inoltre, le sostanze contenute in essi sono pericolose per l’ambiente e la salute.
La crescita della quantità di rifiuti elettronici non è casuale. Infatti è il nostro sistema consumista a produrre scarti. Negli ultimi anni, oltre all’aumento del numero di dispositivi elettronici in circolazione, molte aziende hanno cominciato a inserire nei loro prodotti dei “punti deboli”, volti a ridurre la vita operativa degli stessi. Spesso i nuovi gingilli tecnologici rimangono efficienti a malapena per il periodo di garanzia. Quella che molti chiamano “obsolescenza programmata” è facile da attuare: basta un condensatore posizionato vicino ad un luogo dove si accumula calore e questo di conseguenza si rovinerà più in fretta. Talvolta è la richiesta di continui aggiornamenti, spesso non supportati, a rendere in breve tempo un dispositivo non più utilizzabile.
Una famiglia europea decide di cambiare televisore, comprandone uno a schermo piatto. Un ufficio sostituisce le sue vecchie stampanti. Un centro commerciale rinnova gli uffici. Un adolescente cambia smartphone con l’ultimo modello uscito. Tutti paghiamo una quota al momento dell’acquisto, il cosiddetto “Eco contributo”, che serve a coprire i costi del corretto smaltimento dei Raee. Sono queste le operazioni che, ogni giorno, contribuiscono a creare le milioni di tonnellate di rifiuti elettronici che inondano il nostro Pianeta. Molti di questi apparecchi elettrici ed elettronici dismessi sono ancora funzionanti o contengono materiali costosi che possono essere riciclati. Per questo vengono caricati su container, imbarcati e spediti dai porti dei Paesi più ricchi verso quelli in via di sviluppo, come il Ghana. L’arrivo di questi oggetti alimenta un giro di intermediari, rivenditori e riparatori che li sceglie, testa il loro funzionamento e li rimette in commercio nel povero mercato locale.
Questo business rifornisce imprese, uffici e famiglie della zona di elettrodomestici ed elettronica di seconda mano, scartata dai paesi più sviluppati. È questa l’unica possibilità per loro di acquistare apparecchiature elettriche, data la loro scarsa disponibilità economica e l’impossibilità di comprarne di nuove. Così ha inizio una seconda vita, in Africa, per questi prodotti che non usiamo più. Gli apparecchi possono essere comprati, usati per qualche settimana, mese o anno e finire subito dopo in discarica, risultando nelle statistiche come rifiuti elettronici prodotti localmente. Per quegli oggetti che non possono avere una seconda chance si aprono i cancelli delle discariche locali.
La maggior parte dei Raee si ritrovano proprio in Ghana, ad Agbogbloshie, la più grande discarica di rifiuti elettronici d’Africa. È una città nella città, dove vivono decine di migliaia di persone e ve ne lavorano almeno 70mila, molte delle quali bambini, che non guadagnano più di un dollaro al giorno. Baracche, negozi, moschee, strade fangose, cumuli di rottami, un grande mercato di cipolle. Per gli abitanti di Agbogbloshie l’e-waste è la principale fonte di sostentamento. Per pochi cedis al chilo, ogni giorno uomini, donne e bambini smantellano, recuperano, pesano, trasportano e rivendono pezzi e metalli ricavati dai rottami. È una zona molto povera e inquinata. I fumi tossici avvelenano l’aria e vanno a posarsi sul suolo e sugli ortaggi in vendita al mercato. Le conseguenze ricadono direttamente sugli abitanti: malattie, tumori e morti hanno trasformato i vecchi campi fertili di Agbogbloshie in un cimitero.
I rifiuti elettronici possono essere visti come una miniera tossica che cela un tesoro nascosto. Oltre a piombo, mercurio e cadmio, i Raee conterrebbero l’equivalente di decine di miliardi di euro in plastiche e metalli preziosi, come l’oro. Una miniera da cui attingere con cautela e il cui ricavato offre interessanti orizzonti di sviluppo. Un tesoro pronto per essere investito per salvaguardare l’ambiente, le vite dei lavoratori di Agbogbloshie e aumentare le possibilità di un futuro sostenibile.
Siccome l’Europa è tra i più grandi produttori di rifiuti elettronici al mondo, l’UE si è attivata regolamentando la materia della raccolta dei Raee. Le nuove normative europee chiederanno ai produttori di raccogliere il 45% dei Raee immessi nel mercato fino al 2016, per passare al 65% nel 2019. Per quanto riguarda gli obiettivi di raccolta, l’Italia dovrà raggiungere 8 chili per abitante nel 2016, fino a 14 chili nel 2019. La normativa aiuta il consumatore nello smaltimento, consentendogli di consegnare le vecchie apparecchiature (di piccole dimensioni) non solo nei negozi, ma anche in tutti quei luoghi pubblici come le scuole dove siano presenti gli appositi contenitori. La direttiva introduce, infatti, «l’uno contro zero»: i grandi esercizi commerciali, di almeno 400 metri quadrati, dovranno assicurare il ritiro gratuito senza obbligo d’acquisto di un prodotto equivalente. Non sarà più necessario acquistare un nuovo rasoio elettrico o uno scanner per smaltire quello che non utilizziamo più, secondo la vecchia formula «uno contro uno».
Nel panorama europeo dei dati sullo smaltimento dei Raee, l’Italia risulta un fanalino di coda. Ognuno di noi, secondo l’ultimo rapporto pubblicato a gennaio del Comitato di vigilanza sui rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche in Italia, ha prodotto in media 4,7 chilogrammi di scarti elettronici, solo nel 2016. In tutto fanno 283.089 tonnellate: circa 6.400 tir carichi di spazzatura. Ma questa è solo una cifra al ribasso, secondo molti.
In Italia, la quantità di rifiuti elettronici raccolti e riciclati è in aumento, ma per merito di poche aree geografiche: solo in 49 province la situazione appare in miglioramento rispetto agli anni precedenti, mentre in 40 la raccolta è ancora al di sotto dei 4 kg per abitante.
Solo Olbia–Tempio (10,23 kg), Como (10), Aosta (8,24) e Sassari (7,92) raggiungono il target per il 2016, che prevede per l’Italia una raccolta pro-capite pari a circa 7,5 kg per abitante. In altre 3 province la situazione è rimasta stabile, mentre in ben 58 è addirittura peggiorata rispetto a cinque anni fa: senza un deciso cambio di passo, appare irrealistica per il nostro Paese la possibilità di raggiungere l’obiettivo di circa 10 kg per abitante stabilito dalla Comunità Europea per il 2019.
La più alta media pro-capite si concentra nelle regioni del Nord: Valle d’Aosta, Trentino e Friuli; in forte ritardo, invece, il Sud con Campania, Sicilia e Puglia che stentano a comprendere l’importanza di un corretto riciclaggio dei rifiuti elettronici.
In Italia sono state prodotte 800mila tonnellate di Raee, ma quelle raccolte legalmente sono state appena 237.965,43. “Se si parla di Raee, l’illegalità corre su diversi binari”, dice Stefano Ciafani di Legambiente. Illegalità che nel caso italiano è minima se paragonata alla situazione disastrosa in cui versano alcune zone dell’Africa e dell’Asia, trasformate in discariche di rifiuti tecnologici, non più al passo con i tempi, secondo la logica della società consumistica occidentale. Se un dispositivo smette di funzionare, si corre subito a comprarne uno nuovo in negozio, senza che pensare che potrebbe essere riparato da un tecnico e tornare a funzionare, come succedeva tempo addietro, anche grazie alla maggiore semplicità di assemblaggio dei prodotti, complicata volutamente dalle aziende per ridurre le possibilità di riparazione e indurre all’acquisto del nuovo. Bisognerebbe prendere esempio dallo spirito di adattamento delle povere genti africane che, pur non avendo nulla, riescono a scorgere un potenziale anche in una tv spaccata o un fax fatto dimenticare dall’arrivo di internet.
I vecchi apparecchi, che siano microonde o stampanti, giacciono abbandonati negli angoli più nascosti delle nostre case o in luoghi dove creano pericoli per l’ambiente. Contengono materie prime sempre più rare e richieste, ma anche tossiche e dannose per l’uomo. È fondamentale quindi essere più consapevoli e recuperare i rifiuti elettronici, con un corretto smaltimento, così da aiutare la Terra e la nostra salute.

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