Essere GREEN-minded (12129)

WORKSHOP – Si fa presto a dire green

di Pietro Ielpo, 24 anni, Roma

“Green: a wishfulthinking?” così esordisce a inizio workshop Sergio Ferraris (Direttore QualEnergia) che dà il via al discorso su come misurare la “greenicità”, termine coniato per questa avventura di giornalismo ambientale e scientifico. Questo “pensiero desideroso” ha legami ben radicati in ambito di produzione, finanza e mercato, per il nostro esperto. Ci spiega che l’Italia è stata una delle prime nazioni nel riciclo degli olii usati (per necessità, a dire il vero, e povertà, che a volte risulta essere una virtù).
Dai dati Coou, il Consorzio obbligatorio degli oli usati, si scopre che nel 2011 l’Italia ha rigenerato l’ 88 per cento degli olii divenendo così il leader contro quest’altissimo impatto ambientale. Il Green ha contribuito inoltre a nuove assunzioni (green-job) nel Belpaese e con l’avvento dell’IT (Information Technology) si sono abbattute anche le obsolescenze in ambito di produzione (il ché non è detto che sia un bene), contribuendo perà così ad una maggiore greenicità dei prodotti (ad esempio gli elettrodomestici più efficienti energeticamente). Raccoglie il testimone un giurista, esperto di Diritto ambientale, Tullio Berlenghi, che ci mostra il lato Green dell’ambito giuridico in Italia. Un nuovo termine suscita l’interesse del pubblico dell’Università di Tor Vergata: “Greenwashing”. L’esperto ci spiega essere la pubblicità della presunta greenicità di un prodotto, un termine negativo a tutti gli effetti, che significa “pittata di verde”, un vestitino ad hoc messo su senza sostanza. Una “pittata” che ha valore di operazione di marketing e che ammicca ad una produzione di un bene che può essere “naturale”, “verde”, “riciclabile”, insomma apparentemente non dannoso per l’ambiente, ma tacendone i reali percorsi e dettagli di sostenibilità.
Sia Berlenghi che Diego Scipioni, il linguista che ha definito green e greenwashing, e anche Sergio Ferraris ci invitano a tener sempre d’occhio le certificazioni green dei prodotti, capendone il significato. Esistono molte associazioni, fondazioni e metodologie che si occupano del rilascio di tali “bollini”, primo dei quali quello di Life CycleAssestment (LCA) che, come ci spiega in seguito Fabio Iraldo (Professore di Management ambientale all’Istituto di Management della Scuola Superiore San’Anna di Pisa) è una metodologia che valuta un insieme di interazioni che un prodotto o un servizio ha con l’ambiente, considerando il suo intero ciclo di vita, includendo le fasi di preproduzione, produzione, distribuzione, uso, riciclaggio e dismissione finale. Molto pragmatico l’intervento di Iraldo che con parole comuni spiega la difficoltà che ha in primis la gente a coniugarsi con la greenicità: se un prodotto green costa di più rispetto a un prodotto standard, una persona qualunque acquisterà il meno caro (e quindi quello maggiormente inquinante). Anche la moltitudine degli impatti ambientali di un prodotto rende difficile la scelta tra un prodotto green e uno di pari livello ma non “verde”.
Quando, al workshop, “Parla l’esperto”, è il “Caso Carlsberg” ad essere illustrato. A raccontare la storia di una delle più importanti società produttrici di birra al mondo è la responsabile Ufficio Comunicazione e stampa Carlsberg Italia, Laura Marchini. Il discorso si snoda intorno alla mission  storica dell’azienda (spiegata nel box). Ma il focus di Marchini è sul progetto aziendale “SustainaBEERity”, grazie al quale l’azienda è divenuta la prima azienda birraia al mondo ad ottenere la certificazione EPD ed è tra le prime ad aver aderito al programma del Ministero dell’Ambiente per la valutazione dell’impatto ambientale delle imprese. Per tale mossa green, afferma la Marchini, l’azienda ha ricevuto 3 premi:
Premio dei Premi 2012 (Presidenza del Consiglio dei Ministri);
Premio Imprese per l’Innovazione 2012 (Confindustria);
Premio Innovazione Amica dell’Ambiente 2012 (Legambiente).
Per capire meglio la performance di sostenibilità, qualità e impegno sociale di Carlsberg, abbiamo intervistato proprio Laura Marchini.
Come si misurano i parametri che giudicano vincente la tecnologia “DraughtMaster”? Sono frutto di ricerche interne o per conto di terzi?
La tecnologia DraughtMasterTM esprime la volontà di offrire ai consumatori la miglior birra alla spina possibile da tutti i punti di vista: organolettico, ambientale, gestionale e salutare. Questa nasce nei laboratori Carlsberg a Copenhagen, ma successivamente diviene un progetto guidato da Carlsberg Italia che assume così il ruolo di paese pilota a livello mondiale. Grazie alla tecnologia DraughtMasterTM la birra non è più contenuta nei tradizionali fusti di acciaio, ma in fusti in PET totalmente riciclabili, ideati anche questi da Carlsberg, che permettono un’innovativa spillatura senza CO2 aggiunta, grazie alla semplice compressione effettuata dall’aria contenuta nel modulo a pressione in cui il fusto in PET va inserito. Il tutto è stato guidato sì da Carlsberg ma ci siamo serviti di molte ricerche per conto terzi, in quanto nascendo come un’azienda che produce birra non avremmo potuto avere anche le competenze dal punto di vista ingegneristico e/o costruttivo.
Come vengono coniugate l’eco-sostenibilità della birra Carlsberg in fusti di plastica con la qualità maggiore presunta in quelli di ferro? Il gusto viene impattato dalla mossa di Greenicità applicata dall’azienda?
Per un’impresa che opera nel settore food&beverage, la responsabilità sociale non è soltanto qualità e sicurezza dei prodotti e dei processi produttivi, ma anche consapevolezza del proprio ruolo e dell’influenza esercitata sui comportamenti dei consumatori. È per questo che prima del lancio abbiamo testato insieme agli stessi consumatori se il prodotto fosse stato modificato. Il risultato? Nessuna variazione dal punto di vista del gusto; ma di questo ne eravamo già certi in quanto con i molteplici test in laboratorio l’involucro e contenitore non alterano le proprietà organolettiche della birra.

Storia di una famiglia di birrai
La mission aziendale è quella di produrre birra con il massimo grado di perfezione e utilizzando modelli di qualità di elevato livello. La Carlsberg nasce nel 1847 a Copenaghen quando JC Jacobsen aprì la propria fabbrica al di fuori delle mura della città e la chiamò Carlsberg (“la collina di Carl”), dedicandola al figlio e al colle su cui aveva costruito lo stabilimento. Successivamente verranno incise sugli archi di ingresso (Dyplon Gate) le famose  Golden Words incise nel 1882 “SemperArdens”, segno indelebile della volontà di Jacobsen di puntare sempre all’eccellenza e al continuo miglioramento. La crescente necessità di assicurarsi tutti i vantaggi della produzione su grande scala, insieme all’intensificarsi della concorrenza internazionale, crearono nel tempo le premesse per la fusione, avvenuta nel 1970, tra le due più grandi fabbriche di birra danesi: Carlsberg e Tuborg. Nel 2006 Carlsberg brevetta un innovativo metodo di spillatura, denominato DraughtMaster, che elimina il ricorso all’anidride carbonica e sostituisce i tradizionali fusti metallici a rendere con quelli in PET (materiale riciclabile). Nel 2011 la tecnologia stessa è a disposizione dei consumatori con il marchio Drink Different. Ad oggi l’azienda, leader nel beverage, fabbrica anche accessori e abbigliamento. La sua performance economica è basata sull’etica e responsabilità nelle attività aziendali e verso il mercato; si avvale di tre canali di vendita importanti: Off Trade(vendita al minuto in supermercati e negozi), Horeca (catena di Hotellerie, Restaurant e Cafè) e Clienti Speciali. Grazie a tutte queste qualità Carlsberg è il terzo produttore di birra in Italia, con ben 27 marchi di birra prodotti e/o commercializzati, totalizzando un quantitativo prodotto pari a 1,05 milioni di ettolitri in un anno (2012).
cod. conc. 0505144010

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