Quando a far paura è il clima..

di Rebecca Vitelli, 21 anni, di Carpineto Romano (Rm)

Problema attuale ed urgente quello delle migrazioni, con migliaia di persone che ogni giorno sbarcano sulle coste italiane ed europee affrontando stremanti peregrinazioni, a piedi e con mezzi di fortuna, in cerca di speranza e di un futuro migliore, confidando di trovarlo varcando le frontiere del Vecchio Continente.
Da troppo tempo ci si interroga su come arginare e soprattutto far fronte a questo fenomeno in continuo aumento. Eppure, ad oggi ben poco è stato fatto, e sicuramente non abbastanza. Ad ogni nuovo sbarco ed ennesima tragedia si sente discutere sterilmente sulla differenza tra “rifugiati” e “clandestini”, soggetti a due opposti trattamenti, eppure questa distinzione non tiene conto di un gruppo di persone, sempre più numeroso: i rifugiati ambientali. Nonostante lo stretto legame tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate sia, ormai, universalmente accettato dalla comunità scientifica, e la lotta al climate changing sia un tema centrale a livello internazionale, non si è ancora giunti ad un riconoscimento formale dello status di questi migranti. Le cause ambientali delle migrazioni non sono, infatti, riconosciute dal diritto internazionale, che fonda lo status giuridico di rifugiato sulla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati (1951) e sul successivo Protocollo del 1967, che garantiscono questa tutela in presenza di quattro elementi:
• Trovarsi al di fuori dei confini del paese d’origine
• Il paese d’origine non è in grado di offrire protezione o rendere possibile il ritorno
• La migrazione deve essere inevitabile
• La causa della migrazione deve essere legata alla razza, all’appartenenza ad un gruppo sociale o ad un’opinione politica
Già la sola datazione di questi trattati fa intendere chiaramente che gli esodi che la nostra epoca deve affrontare non potessero esservi contemplati, essendo collegati a problemi di inquinamento ambientale inimmaginabili all’epoca, quando, si pensava soprattutto agli orrori provocati dal Secondo terribile Conflitto Mondiale.
È, quindi, evidente che i rifugiati ambientali sono esclusi da questa protezione, in quanto, in primis, non sempre varcano un confine internazionale, ma lo spostamento può avvenire anche, e soprattutto, all’interno del paese d’origine. In questo caso sono riconosciuti tra gli IDPs, Internally Displaced People, per i quali esistono dei principi guida che fissano uno standard internazionale in tema di protezione legale ed umanitaria. La migrazione, poi, può avere sia carattere temporaneo che permanente, in quanto può non esserci una frattura definitiva con lo Stato d’origine, ma un temporaneo allontanamento. Inoltre, sebbene la migrazione sia, nella maggior parte dei casi, inevitabile, la causa non è contemplata tra quelle codificate. Nonostante alcuni Stati abbiano previsto delle forme complementari di protezione per questa tipologia di migranti, come un permesso di soggiorno o un permesso speciale di lavoro, ciò resta legato alla sensibilità e ricettività delle singole legislazioni nazionali. Oggi più che mai è, dunque, necessario colmare questo vuoto normativo, in quanto i disastri ambientali sono sempre più frequenti e le conseguenze sempre più gravi. Dagli anni ’80, in cui è stata data una prima definizione di profughi ambientali, il fenomeno è cresciuto in maniera esponenziale, e sempre più zone sono a rischio. Solo tra il 2008 e il 2014 le persone costrette a spostarsi a causa di eventi metereologici estremi sono state 157 milioni, e ad oggi, secondo l’IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre), le probabilità di dover abbandonare la propria casa sono il 60% in più rispetto al 1975. Le prospettive future sono, poi, ancora più allarmanti, dato che si stima che entro il 2050 le persone coinvolte da questo fenomeno saranno tra i 200 e i 250 milioni, ovvero una ogni 45 nel mondo. Per questo è importante intervenire ora, non solo per un dovere morale, ma anche per interesse personale, infatti, nessuno può sentirsi veramente estraneo a questo pericolo. Sebbene le aree più esposte e vulnerabili siano Africa, Asia, Caraibi e Sud America, colpite soprattutto da siccità, con conseguente desertificazione, e alluvioni, il fenomeno interessa sempre di più anche USA, Oceania ed Europa, dove più a rischio risulta essere il bacino del Mediterraneo, Italia compresa. Si pensi solo al dramma del lago Ciad, il quarto dell’Africa per dimensioni, che sta evaporando, riducendosi ad 1/5 della sua superficie originale, ed è letteralmente (e non solo metaforicamente) l’ultima spiaggia per circa 15 milioni di rifugiati climatici. Il lago rappresenta, infatti, l’unica fonte di sostentamento per oltre 30 milioni di persone, di cui oltre la metà sono rifugiati climatici, ma tutti i suoi abitanti sono stati certamente colpiti nelle loro attività, in quanto da pescatori o agricoltori sono ora dovuti diventare allevatori per sfruttare le terre emerse, o semplici artigiani. Questa popolazione vive, inoltre, sotto costante minaccia di siccità e, dunque, di sussistenza. Infatti, il lago Ciad è caratterizzato da un fortissimo degrado degli ecosistemi produttivi e delle risorse naturali e, tutti i paesi che vi si affacciano sono colpiti da fenomeni di erosione, insabbiamento, siccità e desertificazione. Il lago e le zone adiacenti sono classificate come zone ecologiche di importanza internazionale, ciò testimonia come sia necessario un intervento urgente, in quanto le conseguenze economiche e geopolitiche di questa situazione potrebbero essere devastanti. Non solo si radicalizzerebbero conflitti per assicurarsi risorse vitali in zone già “calde”, ma altre grandi ondate migratorie avrebbero inizio.
Altro grande problema, non certo secondario, è l’innalzamento del livello dei mari, causato dallo scioglimento dei ghiacciai, che rischia di far scomparire molte città costiere, ma soprattutto piccoli Stati insulari del Pacifico, la cui altitudine media è inferiore al metro, dunque, anche minime variazioni potrebbero essere fatali. A ciò vanno aggiunti altri effetti negativi quali la crescente erosione e l’intrusione dell’acqua salata nelle riserve di acqua dolce. Ed è in questo scenario che si inserisce la triste vicenda delle isole Carteret, in Papua Nuova Guinea, diventate il primo sito al mondo in cui tutti i residenti sono stati forzatamente trasferiti a causa del cambiamento climatico. Siamo di fronte ai primi rifugiati ufficiali del riscaldamento globale. A nulla sono servite le barriere costruite e gli appelli alla comunità internazionale, le mareggiate hanno, infatti, distrutto case e raccolti e, avvelenato terreni fertili, su cui ora gli alberi di noci di cocco e banane non crescono più. Il governo di Papua Nuova Guinea ha dovuto, dunque, pianificare e finanziare l’evacuazione totale delle isole. I residenti di Carteret, circa 3300 persone, che vivevano senza elettricità ed in simbiosi con la natura, hanno, quindi, pagato per colpe non loro e probabilmente, continuando su questa linea, purtroppo, non saranno gli unici, poiché in pericolo sono molte altre piccole isole del Pacifico, Tuvalu e Kiribati in particolare. In assenza di misure concrete adottate a livello internazionale, dovremo, dunque, rassegnarci a veder scomparire sempre più puntini sulle carte geografiche, e, secondo la rivista “Science”, Kiribati potrebbe essere il prossimo. Per questo motivo il suo presidente, Anote Tong, nel 2012, dopo aver ipotizzato di costruire isole artificiali, simili alle piattaforme petrolifere, per ospitare la sua gente, ha acquistato circa 25 km2 di terra libera a Vanua Levu, nelle isole Fiji. Una sorta di assicurazione, la loro ultima speranza, cui ci si augura non dovranno mai ricorrere. Ultima speranza che sta, invece, oramai tramontando per i pinguini di Adelia, cui un enorme iceberg, staccatosi dall’Antartide a causa dell’innalzamento delle temperature, ha bloccato l’accesso al mare. Gli uccelli sono, ora, costretti a lunghi spostamenti di quasi 60 km per procacciarsi il cibo e per questo, il loro numero, in soli 3 anni, dal 2010 al 2013, è passato da 160.000 esemplari ad appena 10.000. L’unica soluzione auspicabile è che i pinguini, al pari degli uomini, migrino, ma purtroppo sono animali abitudinari, che tornano nella colonia in cui sono nati, tentando di ritrovare lo stesso compagno ed il nido in cui solo nati. Non rimane, dunque, che sperare, gli antichi dicevano “Spes ultima dea”, che l’iceberg si spacchi in più parti, restituendo ai pinguini l’accesso al mare. Ma si può continuare affidandosi esclusivamente alla SPERANZA?

cod. conc. 1448631322714

 

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