Il blackout

Racconto di Marianna Antonuzzi, 18 anni, di Monterotondo

C’era una volta un sommo saggio che molto tempo fa predicava nelle piazze, si chiamava Eraclito e sosteneva che “tutto scorre”: Panta Rei.

Renato, un giovane principe azzurro della Repubblica Italiana del XXI secolo, ingenuamente si interrogava sul come potesse un filosofo dell’antica Grecia dare a lui, giovane uomo del terzo millennio, consigli di vita.

Proprio per via di queste incomprensioni di carattere logico Renato per quel giorno scelse di chiudere il tomo di filosofia e di uscire a farsi una passeggiata.

C’era un bel calduccio a quell’ora soleggiata del pomeriggio, ma Renato non parve farci caso: sbuffò sfilandosi il giacchetto in ecopelle e si calcò gli occhiali sulla testa, grugnì infastidito dal sole che non gli permetteva di leggere il display del telefono: inarcò la schiena per gettare ombra sul cellulare e gli occhiali da sole gli scivolarono sul naso, ma finalmente era riuscito a sbloccare lo schermo e ad alzare la luminosità.

C’era un canto meraviglioso ad accompagnare i suoi passi , grazie agli stormi che attraversavano il cielo al tramonto, ma Renato ormai aveva inserito le cuffiette e la musica gli esplodeva a tutto volume nelle orecchie.

Quel trafficare lo aveva talmente stressato che dovette accendersi una sigaretta.

Passò accanto ad alcuni negozi e qualche bar sempre accompagnato dallo smartphone, suo fedele consigliere.

Considerò l’idea di entrare in uno di quei bar per domandare cosa stesse succedendo, aveva notato con qualche occhiata distratta che la gente si stava radunando intorno alle radio o davanti gli schermi dei televisori: certo avrebbe potuto farlo, ma quelle non erano che persone che ascoltavano un telegiornale, cosa potevano saperne!

Sarebbe stato più adatto chiedere al suo telefono o in qualche chat.

Premette sul microfonino touch e parlò al suo smartphone

-Siri, cosa dicono i telegiornali?

Attese con soddisfazione che rispondesse, ma trasalì quando un rumore estraneo gli perforò le orecchie: cos’era?

Renato fissò il cellulare con gli occhi sgranati e le dita sudate.

Una sirena? Un ululato interminabile, seguito da tante urla ammassate come un’accozzaglia di armi, uno stridere lo fece voltare di scatto: cosa stava succedendo?

Gli uomini si riversavano fuori dai locali e si affacciavano dalle auto.

Disperatamente Renato cercò di capire perché il cellulare non gli serviva alcuna spiegazione: lo schermo era  vuoto, un buco nero. Non c’era campo.

Era abbandonato a se stesso, scollegato dal mondo.

Con la gola secca sfilò le cuffiette lentamente venendo investito da un chiasso assordante: uccelli che cantavano, foglie che frusciavano, i tacchi sull’asfalto, ruote dei trolley, risate baritonali e di nuovo quello stridere che Renato scoprì provenire da un fischietto.

Un vigile se ne servì per fare attraversare la strada ad un esercito di bambini: un marmocchio finì addosso a Renato lasciandolo talmente sconvolto che senza accorgersene aveva spalancato la bocca facendo finire nella pozzanghera sulla quale si trovava la sua sigaretta: fissò i suoi piedi come se avessero sette dita, era in una pozzanghera e non se n’era accorto nemmeno.

-cos’è successo mamma?

Domandò una bambina alla madre passandogli davanti senza degnarlo di uno sguardo

-c’è stato un blackout tesoro

La mamma le spiegò cosa significasse e Renato osservò la reazione meravigliata della bimba

-quindi stasera papà non lavora?

La madre sorpassò Renato mano per la mano con la figlia lasciandosi dietro una risata.

Un blackout.

Ecco il perché dell’assenza di campo, dei telegiornali e degli allarmi: si erano spente le batterie della città e si erano accese quelle del mondo.

Renato si tolse gli occhiali da sole per vedere il colore abbacinante del cielo; ripose il telefono inutilizzabile e le cuffie nelle tasche abituandosi a poco a poco alla frenetica voce della vita intorno a lui.

Abbassò gli occhi sulle scarpe inzuppate nella pozzanghera, nella quale vide riflettersi uno stormo di rondini: di scatto portò gli occhi al cielo sconcertato dalla maestosità di quelle danze allegre.

Come facevano a comunicare quelle creature?

Era davvero autosufficiente la natura.

Il principino percepì delle sensazioni da tempo dimenticate: curiosità, stupore.

Salutò con un cenno gli uomini fuori dal bar che lo stavano fissando alquanto divertiti.

-figliolo ti andrebbe una partitina con qualche vecchietto?

Propose uno di loro beccandosi un’occhiataccia da un altro

-vecchietto ci sarai

Renato si sentiva come un bimbo per cui tutto era nuovo: c’era un mondo intorno a lui, che andava per conto suo senza aspettare nessuno.

Pensò a tutte le volte in cui se ne era stato nascosto dietro al suo smartphone invece di assaporare la vita.

-se n’è svegliato un altro- commentò un terzo uomo: stavano guardando un signore che aveva tolto l’auricolare e osservato suo figlio come se fosse stato un extraterrestre.

Il piccolo gli aveva lasciato un fiore vicino al tablet.

Renato si accorse di una ragazza che aveva calpestato una bellissima foglia rossa, ma lei era troppo presa da sul I Pod per vederla.

C’era anche un giovanotto che sotto un portone mandava un sms invece di citofonare, ignorando completamente la vecchietta di fianco a lui che aveva difficoltà a portare con sé la busta della spesa.

Renato avvertì quell’istante come quello di un brusco risveglio: era come se tutto quello che aveva inconsciamente ricercato nella tecnologia lo avesse sempre avuto a portata di mano, nella realtà.

In termini metaforici la Terra, di conseguenza la vita, non si comportava come una tariffa telefonica che mette a disposizione messaggi, minuti e giga che basta ricaricare per riavere una volta scaduta l’offerta, anzi il suo funzionamento ricordava quello di una sigaretta accesa: l’umanità stava aspirando avidamente le sue risorse senza rendersi conto che presto o tardi si sarebbe ritrovata senza nulla da aspirare, con un filtro insipido fra le labbra e una cicca sotto la suola della scarpa, o in una pozzanghera per esempio.

Il punto era che non ci si sentiva vivi catturando i pokemon sotto gli alberi, non ci si sentiva vivi commentando le foto su instagram, oppure dopo aver trovato la rete Wifi senza password della zona.

Vivere era inseguire una persona per non lasciarla andare, vivere stava nel citofonare, nell’incrociare lo sguardo di uno sconosciuto, vivere voleva dire restare bloccati in ascensore con qualcuno, vivere significava giocare col cane, sorridere al signore, portare la spesa dell’anziana vicina di casa su per le scale, perché tutto sarebbe passato, tutto scorreva.

Quel tramonto dietro la curva non sarebbe più tornato, quel fiore appassito sarebbe rimasto sul quel tavolino di acciaio fino alla folata di vento che avrebbe spazzato via perfino quella foglia rossa calpestata nella fretta e nella distrazione.

E non ci sarebbe stato mai nessuno a raccontare quello che ci si era persi.

Nonostante la sensazione di intorpidimento generale che provava in quel momento Renato si avvicinò lentamente al bar incuriosito da quei vecchietti, che sembravano nascondere il segreto della vita nei loro sguardi beffardi.

Proprio quando fu davanti la porta vide affisso un volantino:” Giornalisti nell’erba: Panta Rei” recitava la scritta, si trattava di un concorso per giornalisti e il tema vedeva come parola chiave proprio il motto di Eraclito.

Renato si ricordò immediatamente il motivo per cui era uscito di casa e come era finito lì: fissò a lungo quelle due parole e si disse che finalmente aveva capito cosa volesse dire il filosofo con l’aforisma ” tutto scorre”.

La vita andava e bisognava correrle dietro.

Rimpianse tutto ciò che si era perso fino a quel pomeriggio, staccò il volantino dal vetro e lo strinse fra le dita, si fece una promessa: avrebbe fatto di tutto per risvegliare gli altri, tutti quanti! Quanti più avrebbe potuto! Tutti avevano il dovere, oltre che il diritto, di godere di ciò che la vita offriva e non perdere altro tempo.

Solo così sarebbero stati tutti veramente per sempre felici e contenti.

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