… e da allora imparò a guardare le stelle (9505)

Racconto di Francesco Toscani, 16 anni, di Como.

Il vuoto, finalmente. Niente grida, niente caos, niente musica. Solo un silenzio sovrumano che si staglia attorno a lui; un silenzio cosmico più assordante di un martello pneumatico, che grava sopra la Città come una montagna volante, che sovrasta l’uomo col suo enorme peso e lo trita con la sua titanica forza di gravità. Niente luci a parte quella soffusa e pigra del Sole che lascivo sprofonda nel mare lontano all’orizzonte; niente luci che non siano naturali, nessuna sostanza chimica va a fuoco irradiando fotoni dal suo cadavere, nessuna lampadina, insomma, nessuna luce intermittente o statica, nessuna immagine in movimento. Buio, o quantomeno penombra, e silenzio; la pace. Non c’è nessuno a parte lui, che fissa lo sterminato paesaggio urbano e si meraviglia di quanto si senta bene. Silenzio, penombra, pace…
Il vuoto, finalmente: ma l’uomo sa bene, benissimo, quanto poco durerà. Sa che a breve dovrà scendere e rituffarsi a corpo morto nel marasma di ritmi incalzanti, frasi brillanti, risate di scherno, dibattiti televisivi, discoteche, sballo, musica elettronica, suonar di clacson, fumo, luci al neon, corse in giro per la città, obbiettivi a breve termine, appalti, telefonate, fish and chips, supermercati, poste, autobus, campagna elettorale, Testimoni di Geova che suonano al campanello, Google News, imprecazioni, tunnel, fischi, derby, semifinali, finali, litigi, vestiti, riviste, reality, posta (tantissima posta), happy hours, superalcolici e telegiornali -nel marasma insomma che è la vita. Quand’è che è diventata così frenetica, la vita, questo l’uomo non lo sa. A un certo punto è cambiata e lui non se n’è accorto. Capita. Ma -si chiede l’uomo- come fanno i suoi amici, e i suoi nemici, e lui stesso, come fanno tutti a vivere così? Corrono, saltano, brulicano. La vita è terribile, il destino ci frusta, ci spinge a correre, correre, correre, e -pensa l’uomo- tutto questo è anche molto bello! Solo i neonati stanno fermi. La vita è cosi. Ma lui si sente stanco, e non vuole più correre.
Ora c’è pace. L’uomo si sente in pace, ora che non deve ascoltare nulla. Né vedere, mangiare, bere, fumare, colpire nulla. Ma quanto durerà? Qualche minuto, forse meno. Ora lui si sente finalmente in pace, vive nel presente. Pensa a se stesso come a ‘l’uomo’. Tutto gli sembra assoluto, quasi biblico. Sta bene, e vuole continuare a star bene.
Il Sole tramonta.
Nella totale e assoluta consapevolezza di ciò che sta facendo, l’uomo fissa i trentanove metri e mezzo che lo separano dall’asfalto, mette un piede nell’aria, si ribalta, e precipita a testa in giù verso la morte.
Il vuoto, finalmente.
Appena si svegliò, lanciò un grido, subito strozzato da un attacco di tosse. Luci d’ignota provenienza gli ferivano gli occhi. Un odore intenso, che non riuscì subito a riconoscere, gli pungeva il naso. Era sdraiato su una superficie terribilmente scomoda. Ma -quel che era peggio- tutti i ricordi di quelli che, ragionevolmente,
avrebbero dovuti essere i suoi ultimi istanti gli si accavallavano nella mente, chiari e folgoranti come se fossero vecchi solo di pochi minuti.
Ma non dovrei essere morto? Non me lo immaginavo così, il Paradiso.
Gli venne la tentazione di urlare di nuovo, ma si trattenne.
Sentì dei passi; alcuni secondi d’attesa, e nel suo campo visivo comparve una donna. Infermiera -sono in un ospedale! Okay, questo spiega molte cose. Ma nemmeno a suicidarmi sono buono?
Questi e altri pensieri sfrecciarono nella sua mente in un frammento minimo di tempo, nel quale un cenno di sorpresa balenò negli occhi dell’infermiera, che un secondo dopo sorrise. Era un ragazza alta e slanciata -aerodinamica fu la parola che gli venne in mente- con un bel viso paffuto. Molto carina, nel complesso, anche se aveva un’espressione stanca e delle pesanti occhiaie che le sciupavano il viso.
“Ben svegliato” disse.
I giorni passarono veloci; sabato, lunedì, mercoledì, venerdì, ancora sabato, martedì, giovedì, un terzo sabato di cui quasi non si accorse, domenica, lunedì, un martedì noioso, e poi giovedì gli dissero che l’avrebbero congedato il giorno dopo.
“Lei è stato fortunato, signor Jordan” gli disse il primario, un uomo alto e secco, sui cinquant’anni, gli occhi miopi, che l’aveva preso a cuore perché aveva conosciuto bene il suo papà. “Non capita a molti di cadere da quaranta metri d’altezza e uscirne con una gamba e due costole fratturate. È più facile che…” qui ebbe un’esitazione “… si muoia.”
Gli avevano spiegato che nella sua caduta per un qualche miracolo aerodinamico doveva essersi ribaltato in modo da cadere sulla gamba sinistra e non di testa -ma anche così era incredibile che fosse sopravvissuto.
Il primario lo guardò preoccupato. “Alfred” disse “davvero, perché l’hai fatto?”.
Per la settima volta in tre giorni, Alfred gli rispose dicendo la verità.
“Non lo so. Davvero, non… In quel momento, mi sembrava giusto… Voglio dire… Non capivo perché continuassi a lavorare, a uscire, a… La mia routine mi sembrava così insensata, capisce?”.
Il primario gli sorrise, con aria paterna, e dolce.
“Sai, non c’è niente di strano. Ci capita tutti i giorni gente col tuo problema -gente che si sente stanca e vuota… Ma, santo cielo, succede a tutti di sentirsi un po’ strani! Devi capire che quando ti capita puoi parlare, capisci? Parlare è più che sufficiente, quando ci si sente stanchi. Non sei un pazzo, Alfred, lo so bene. E sono contento di vedere che adesso stai bene.”
Alfred annuì, lieto. Chissà che mi aveva preso, pensò.
E il giorno dopo prese un taxi, di nuovo intero e pronto alla vita, e tornò a casa sua.
“Ahhh… Casa dolce casa” disse ad alta voce, e rabbrividì sentendo le sue parole propagarsi per tutti gli angoli e gli anfratti dell’appartamento. Entrò, sorridendo di gioia autentica. Non si era propriamente annoiato, nelle settimane in ospedale, eppure gli era molto mancata la sua confortevole e comoda routine: il lavoro, gli amici, le
ragazze, la musica, le discoteche (anche se man mano che gli anni passavano ci entrava sempre di meno, perché pensava che oltre una certa età uscire e andare a ballare fosse una cosa piuttosto triste), i film sul divano la domenica pomeriggio…
Aperitivi, giornali, una sigaretta ogni tanto…
Tutto questo lo aspettava e lui lo aveva aspettato.
Il suo sorriso si allargò mentre deponeva le valigie, andava in bagno, apriva le finestre, camminava a larghe falcate per le stanzette della sua casa… Rivide le pile di dischi, la polvere, le bottiglie vuote che non aveva avuto cuore di buttare, riaprì l’Archivio, nome con cui chiamava una cassa piena di ritagli, volantini e vecchi giornali che aveva voluto conservare, e rivedendo tutto questo sorrise, sorrise, sorrise.
Accese la segreteria telefonica. Chissà se l’avevano cercato?
-Bip- Sono presenti -quarantuno- messaggi non ascoltati:
‘Ciao Al, sono Lorie… Senti, ho… Ho appena saputo… Spero che tu stia bene. Che ti è preso?Voglio dire, sapevo che non stavi molto bene, ma lo sai che puoi parlare… Perché ci hai fatto questo? Davvero, spero che tu ti sia ripreso… Senti… Chiamami quando esci, d’accordo?’
‘Ehi Jordie! Ma che hai fatto? Ti sentivi male? E soprattutto… Come ti senti ora? Spero che tu ti sia ripreso! Dai, chiamami quando esci! Andiamo a farci una birra, ti va?’
‘Signor Jordan, siamo venuti al corrente dell’accaduto e teniamo a farle avere il nostro sostegno. Speriamo che si sia ripreso…’
‘Jordan, ma cos’hai combinato? Ci siamo molto…
‘…e fatti sentire quando esci, d’accordo?’
‘…spero che stia meglio…’
‘…stammi bene, mi raccomando, Jordan…’
‘…sai che puoi contare su di noi…’
‘…la tua famiglia non ti molla…’
‘…chiamami, quando esci!’
‘…ma Jordie-boy, lo sai che puoi sempre parlarmi se hai dei problemi…’
‘…non importa cos’è successo, spero che tu stia bene…’
‘…spero che tu ti riprenda…’
‘…lo sai che puoi contare su di noi…’
‘…pensiamo tutti a te…’
‘…chiama, quando esci!’
‘…se ne hai voglia, quando esci, chiama!’
‘…ti va una cena, quando esci?’
‘…spero che tu ti sia ripreso…’
‘Ehi Alfie, ti sei ripreso? Spero proprio di sì…’
‘…te l’ho SEMPRE DETTO che puoi contare su…’
-Bip.-
Jordan spense la segreteria.
Tecnicamente, stava ancora sorridendo. Ma il suo sorriso si era trasformato in una maschera -la sua espressione si era fossilizzata, i suoi muscoli diventati una grottesca figura di plastica, e i suoi occhi erano vitrei e lucidi.
Perché l’accavallarsi di voci amiche non l’aveva reso più gioioso?
Turbato, aprì un libro a caso e si mise a leggere, in piedi. Dopo poche righe -che scivolarono via dalla sua mente senza lasciar traccia- lo richiuse e restò lì, immobile, a fissarlo. Smise di sorridere, e immediatamente una sensazione di sollievo rifluì nei muscoli della mascella non più contratti.
Perché, si chiese calmo, per la seconda volta, e questa volta determinato a trovare la risposta, perché l’accavallarsi di voci amiche non l’aveva reso più gioioso?
Perché erano tutte uguali. Ovvio -la segreteria telefonica appiattiva, livellava e convertiva in uno stantio rumor meccanico ogni suono che finiva nelle sue fauci; e tutto ciò che rendeva unica e riconoscibile una voce, trasformandola in un’impronta sonora alla quale associare automaticamente tutto ciò che si ricorda di una persona, veniva stritolato e frantumato.
Timbro, cadenza, intensità, altezza, tonalità, frequenza, estensione, tutto questo veniva compresso e ricompresso, fino a trasformarsi in un’unica linea di suono, piatta come l’encefalogramma di un omofobo -pensò Alfred con una punta d’ironia.
Ma c’era dell’altro. Non era solo colpa della segreteria se gli era parso che le voci dei suoi amici e conoscenti fossero uguali. Era che… Era che c’era già qualcosa di spaventosamente simile nelle loro voci…
Qualcosa di insensato. Come se parlassero per istinto… No, anzi: come se parlassero per abitudine. Per abitudine, e nulla più… Un cicaleccio privo di significato… Un accavallarsi di frasi meccaniche, di gentilezze… Casuali…
Ma no.
Ma no, Alfred, non è così… La verità è che sei TU, e nessun altro, a percepire così le voci degli amici… Ed è perché sei TU… Santiddio, perché penso in seconda persona? La verità è che sono IO ed io soltanto a sentirmi così. A sentirmi privo di significato…
Sono stanco, e questa è la sola verità.
Ma naturalmente non era una stanchezza che si potesse combattere riposando. Era appena stato più di due settimane in un letto d’ospedale, e non era certo servito. Cosa fa uno che si sente stanco di vivere?
Doveva capirlo in fretta, perché sentiva che se avesse di nuovo ignorato il problema, come aveva fatto per troppo tempo, o se non fosse riuscito a trovare una risposta, allora si sarebbe buttato di nuovo.
E allora non si sarebbe certo ripetuto il miracolo.
Dieci ore dopo, nell’intervallo tra la cena e il caffè, stava ancora interrogandosi.
Alle sue spalle la caffettiera gorgogliava.
‘Che farò?’, si chiese ad alta voce, con tono piagnucoloso, e in quell’istante scattò in piedi. Un ricordo gli schizzò velocissimo nella mente. Alcuni mesi prima… Un ritaglio…
Corse verso l’Archivio, gettò di lato il coperchio, e iniziò a scavare, rovesciando strati e strati di sedimenti di carta… Giornali, giornali, giornali, un quaderno, un volantino, un altro, altri quattro attaccati, una rivista sgualcita, giornali, un ritaglio! ma no, non era quello cercato, però si avvicinava, un’altra rivista, un fumetto, ed
eccolo! Riemerse gloriosamente da quell’Oceano di frammenti d’attualità e Alfred lo strinse tra le mani, esultante…
VUOI RIDARE UN SENSO ALLA TUA VITA?
CIÒ CHE HAI NON TI SODDISFA PIÙ?
CERCHI UN’ESISTENZA AUTENTICA?
ALLORA RETURN TO ORIGINS HA CIÒ CHE FA PER TE!!!
NOI DELL’RTO TI OFFRIAMO DI PROVARE A VIVERE PER DUE SETTIMANE CON UN CACCIATORE, IN UNA CASA DI COLTIVATORI DIRETTI O CON UN PESCATORE, PER PROVARE A VEDERE COSA SIGNIFICHI DAVVERO VIVERE UNA VITA LIBERA A CONTATTO CON LA NATURA!
Per ulteriori informazioni chiama 0947665829, scrivi al nostro indirizzo e-mail info@returntoorigins.com, visita il nostro sito www.returntoorigins.com, oppure cercaci su Facebook!
Sede: Christie Street 88, New York
Era un volantino che l’aveva colpito, malgrado lo stile enfatico e ingenuo con cui era stato scritto -o forse anche per quello stile, chissà? Lui non era mai stato un hippie, e ideologicamente non si era mai sentito simile ai predicatori di ‘ritorni alla natura’, ‘liberazioni dalle catene del consumismo’ e amenità varie. Gli erano sempre sembrate favolette, utopie innocue, invenzioni per bambini ingenui pronti a credere che bastasse aver meno soldi perché l’uomo rivelasse tutta la sua bontà…
Eppure, eppure non poteva negare di essere rimasto affascinato da quel volantino, dalla convinzione e dalla fiducia che trasparivano con forza da quelle frasi sgraziate e sovraccariche di punti esclamativi.
E allora…
Perché no? Le mani cercarono il telefono. Si girò e appoggiò la schiena contro il muro, seduto in mezzo ai fogli di giornale sparpagliati.
Le dita tese digitarono il numero.
Silenzio.
Squillo.
È sera, stupido…
Squillo.
Partirà la segreteria…
Squillo.
Nessun ufficio sta aperto oltre le diciannove…
‘Fondazione Return to origins buonasera’
‘Ah…’
‘Scusi?’
‘Buonasera. Buonasera, mi chiamo Alfred Jordan… Vorrei… Vorrei… Ho visto il volantino…’
‘È interessato alle due settimane di ritorno alle origini?’
‘Sì.’
‘Oh, grazie a Dio. Allora, cosa preferisce? Pescatore, cacciatore, o baita? Lei dove vive?’
‘New York…’
‘Ah, perfetto! Allora, cosa preferisce? Per una questione geografica le suggerirei le due settimane in barca…’
‘Ma… Come funziona? Voglio dire… Io ho solo visto un volantino…’
‘Costo duemila dollari, dei quali mille da riversarsi in anticipo e mille alla fine del servizio. Lei vivrà per due settimane su una barca a motore con un pescatore. Lo aiuterà nel suo lavoro per quanto potrà. Non avrà con sé né cellulare né computer né altri mezzi di comunicazione. Due settimane senza nulla, in mezzo al mare. Per partecipare inizi a darmi alcuni dati, poi dovrà compilare un modulo che troverà online e spedircelo via fax. Che ne dice?’
‘Bene. Sì… Sì, va bene.’
‘Allora, mi dia il suo nome…’
E dopo un paio di minuti aveva fornito nome, indirizzo, data di nascita e indirizzo e-mail, e quando riattaccò il telefono sentì, e lo sentì davvero, che sarebbe andato fino in fondo.
Nel frattempo, in cucina il caffè si era sparso su tutto il mobile e la caffettiera stava ululando.
E uno strano senso di entusiasmo gli salì in petto…
Poi, passarono pochi giorni, alcuni amici stretti gli fecero visita, una quantità immane di moduli fu compilata, il Direttore espresse la sua comprensione e gli consentì volentieri due settimane di vacanza (che fortuna avere un principale così), altre telefonate furono effettuate, suo cugino dormì da lui una notte…
E poi un mattino si presentò al porto di New York. L’aria salmastra che veniva dall’Oceano si mescolava imbastardendosi con i miasmi della metropoli, e il risultato era un autentico labirinto olfattivo, un caos sensoriale che Alfred non riusciva però ad apprezzare debitamente, in quanto il suo cervello era ancora drogato e sedato dal sonno distruttivo che stava inesorabilmente calcificando il suo sistema nervoso. Le quattro e mezza… Perché partire così presto? Che senso aveva?
E il proprietario della barca, dov’era? Cosa anche più importante, dov’era la barca?
Non si era svegliato alle quattro in punto per poi farsi tirare un bidone. Si chiese tutto a un tratto se non l’avevano imbrogliato. Si chiese se non stesse buttando via i suoi soldi -ma no, pazienza, non era quello il problema, lui stava bene, duemila dollari fino a qualche anno prima avrebbero significato moltissimo, ma ora non più… No, in realtà non aveva molto da perdere. Anzi. Solo che…
Solo che come aveva visto l’Oceano stendersi incontaminato e amorfo, illimitato, una visione atavica e sovraumana, come aveva visto quella biblica, quella titanica, ciclopica massa d’acqua –nel momento in cui aveva compreso che si trovava di fronte a un caotico Infinito, dove la nozione stessa di ‘confine’ perdeva di significato, e aveva capito che quell’Assoluto sarebbe stato la sua casa…
In quel momento, il suo cuore aveva sussultato e il calore era defluito dalle sue gambe.
Come avevano fatto gli antenati dei suoi antenati, gli antenati della sua Epoca, ad affrontare il grande Oceano armati solo del loro coraggio e della loro intelligenza –come avevano fatto a sfidare quel Gigante Primordiale che aveva visto la loro nascita e avrebbe visto la loro morte, armati solo di loro stessi?
Guardò l’orizzonte buio che iniziava a rischiararsi, e a quella vista la sua mente sovrappose altre immagini. Pensò che grandi velieri avevano solcato quelle acque; gli parve di sentire il cigolare del legno, immaginò l’orrore di marinai ignoti mentre la natura si ribellava e nel cielo sopra le loro teste si scatenavano immani tempeste, pensò allo sguardo ultimo che uomini un tempo forti stroncati dalla fame, dalla sete o dallo scorbuto dovevano aver lanciato al cielo, udì le risate immonde di pirati lerci ed ebbri di morte, vide la costa come dovevano averla vista i primi Europei che avevano attraversato l’Oceano –una distesa di terre e foreste vergini di tocco umano popolate delle urla di uomini forti e selvaggi, col petto nudo e le spalle grandi come tronchi d’albero; pensò alle battaglie che su quell’Oceano si erano combattute, scontri irrefrenabili e violentissimi per il dominio sulle distese d’acqua che nessuno avrebbe mai dominato davvero; le battaglie da cui era stata partorita la sua Civiltà…
E in sottofondo, a fare da trait d’union uditivo a quella catena di stereotipi così affascinanti, la sua mente immaginò di percepire le prime note della colonna sonora di Pirati dei Caraibi…
Un forte rumore di tosse interruppe il libero scorrere dei suoi pensieri. Abbassò la testa.
Sotto di lui, in piedi su una piccola barca a motore, stava un uomo -non l’aveva sentito arrivare… Era -questo lo vide subito- un uomo molto alto, robusto –anzi no, non era robusto, era anzi piuttosto magro, e alto meno di un metro e sessanta, ma aveva un suo modo di stare dritto, come se si ergesse sul Mondo, anzi no, come se lui si ergesse e basta, e il Mondo gli fosse stato costruito intorno –intorno a lui, unico colosso di pietra, il cuore colmo di ribollente e ululante energia magmatica, circondato da deboli figure di cartapesta animate da un leggerissimo vapore acqueo…
Ma non riuscì a distinguere molto di più. La sua sagoma era indistinta, mentre i contorni del suo corpo si mescolavano alle ombre della notte ormai prossima alla fine.
Gli parve che lo guardasse, ma non vide i suoi occhi.
“Jordan?” chiese. E poi, senza attendere risposta, disse “Muoviti.”
Jordan, per la prima volta da quando aveva digitato il numero che aveva letto sul volantino (0947665829, se lo ricordava ancora) si chiese quello che stava facendo. Che faceva lì? Era sicuro di quello che…
Oh, inutile farsi troppi problemi. Tanto ormai…
Saltò sulla barca.
Il pescatore, che si chiamava Konstantinos (‘come il poeta’, ci teneva a precisarlo) era un uomo strano. Doveva essere abbastanza anziano; il suo corpo era straordinariamente forte, ma il suo volto era segnato (per non dire devastato) da un
avvilupparsi di rughe profonde, che si susseguivano secondo forme labirintiche e caotiche. Gli occhi erano miopi e stanchi, ma si intuiva che dovevano essere stati vispi e attenti. Era calvo, ma si passava spesso le mani sulla testa, roteando le dita come ad arricciare una chioma invisibile o estinta. Il suo naso era grosso e storto, come se fosse stato un tempo rotto.
Quando Alfred saltò sulla barca, quello iniziò a remare, mentre il suo passeggero restava a guardare la città allontanarsi alle sue spalle. Remava con forza e convinzione, senza spiccicar parola; ogni tanto sputava in acqua con una violenza che lasciava Jordan sconcertato. I suoi sputi avevano una gittata immensa, e colpivano l’acqua facendo un rumore come di un sassolino lanciato da un monello, un ‘pluf’ che rompeva il silenzio…
Perché, per il resto, il pescatore non parlava. Continuò a remare per più di un’ora mentre Alfred si rendeva conto, lentamente, che tutto sommato il silenzio non gli dava fastidio. Anzi…
Sorse il Sole e l’acqua attorno a loro si illuminò e Alfred Jordan si sentì insolitamente gioioso.
A un certo punto Konstantinos smise di remare e accese il motore, dopodiché guidò la barca tranquillamente per un paio d’ore (o per quelle che a Jordan parvero tali) finché la costa e New York sparirono lontane. Solo a quel punto si voltò.
“Alfred Jordan” disse, e l’uomo sentì per la seconda volta la sua voce, che gli parve rauca e sporca. Non gli piacque.
Ci fu un lungo istante di silenzio.
“Io sono un pescatore. Questa è la mia barca. Si chiama Beatrice. Io mi chiamo Konstantinos. Come il poeta.” Dopodiché gettò una rete e tacque per molto altro tempo.
L’apprendistato di Alfred Jordan, uomo di città, iniziò il pomeriggio stesso e si estese per parecchi giorni.
Innanzitutto, imparò a remare dal momento che il pescatore sembrava essere intenzionato a usare il motore il meno possibile. Konstantinos, che parlava pochissimo, gli insegnò conducendogli le mani e guidandogli le dita a fare nodi, e gettare le reti e a tirarle su, gli mostrò dozzine di tipi di diversi pesci, e si rivelò prodigo di informazioni sul vento che si rivelarono piuttosto inutili, non essendo la Beatrice una barca a vela. Intrecciava nozioni strettamente ‘scientifiche’ -informazioni sui vari tipi di nodi, sul comportamento delle correnti e su quello dei pesci- a nomignoli inventati, neologismi di basso livello, che stavano a indicare non solo, com’è facile immaginare, i diversi animali che predava, ma anche stati d’animo, o momenti della sua quotidianità.
‘Desupportazione’ o ‘obsupportamento’: il momento in cui il rollio della barca pare più intenso e una leggera sensazione di nausea sale nella mente del marinaio- una sorte di preludio al mal di mare.
‘Spiedistallazione’: il senso d’improvvisa umiltà o di grandiosa vertigine che prende talora il marinaio che ritto in piedi guarda attorno a sé le immensità oceaniche.
‘Traslassitazione’: il momento in cui ci si rende conto che ormai il nostro passo si è adeguato al rollio della barca, che nella sua instabilità è per noi il punto d’appoggio per eccellenza, perché unico; e che quando si tornerà sulla terraferma, il nostro passo faticherà a riadattarsi a una superficie immobile, e le nostre gambe, non più stimolate dallo spostamento della barca, si sentiranno deboli e fiacche e per un po’ non riusciranno a muoversi col vigore a cui eravamo abituati.
I giorni trascorsero lenti e calmi, benché faticosi. Ma soprattutto, trascorsero nel silenzio.
Il pescatore sembrava disprezzare furiosamente la comunicazione tradizionale. Il dialogo, col suo tradizionale schema ‘io-parlo-e-tu-rispondi’ non sembrava fatto per lui. Preferiva comunicare in altri modi.
Talvolta si trattava di muti dialoghi visivi; Konstantinos faceva cenni imperiosi, decisi, e ciascuno di questi risuonava come un comando imperscrutabile e indiscutibile. Questi cenni potevano voler dire ‘stai calmo!’ o ‘muoviti!’ o ‘pensa’ o, una volta, ‘chiedimi ciò a cui stai pensando’, o anche ‘dormi’, o ‘butta le reti!’, ma anche cose più complesse. ‘Sei triste’, gli comunicò una volta muovendo il capo e le mani. Lui scosse la testa e il pescatore irato allargò gli occhi e lo indicò. Jordan non capì.
‘Io?’ gli chiese.
Konstantinos scosse la testa.
‘Sei arrabbiato?’.
Konstantinos ruotò su e giù la mano aperta. Più o meno, ci sei quasi.
Jordan riprovò.
‘Ti ho fatto arrabbiare?’
Konstantinos annuì.
‘Un attimo… Ma avevi detto che il dito puntato vuole esprimere un comando?’
Annuì di nuovo. Quindi, rifletté Jordan, gli aveva dato un ordine e il significato dell’ordine era espresso dagli occhi aperti…
‘Guarda bene?’
Konstantinos fece di nuovo un ‘ci sei quasi’, poi si mise una mano sugli occhi e fece cenno di no con l’indice.
‘Non… Non mentire a te stesso?’
Il pescatore annuì deciso, e allora Alfred Jordan si rese conto di essere triste per davvero.
Per chiamarlo, usava metodi diversi. A volte saltava sul ponte furiosamente e Jordan correva richiamato dal rumore. Più spesso, batteva le mani o schioccava le dita con un’alterigia e una forza che lasciavano l’altro stupefatto e gli facevano pensare di non aver mai conosciuto un uomo vero prima di allora –il pescatore era granitico, era immutabile ed appariva indistruttibile. Per quanto si muovesse molto, nulla, nei suoi movimenti, era superfluo: egli anzi metteva in ogni atto una forza e una convinzione tali da far apparire assoluto ogni suo pur mimino gesto. In un paio di casi, per chiamarlo fischiò con forza, come avrebbe fatto con un cane. La cosa metteva una
certa umiliazione addosso a Jordan, e a ben vedere era un gesto molto maleducato. Ma non glielo disse mai.
Altre volte, Konstantinos parlava. Ma non si esprimeva mai con discorsi, e non dialogava mai col suo passeggero. Piuttosto preferiva sparare secchi aforismi, talora apparentemente banali, talora privi di significato, talora enigmatici, ma sempre espressi con assoluta convinzione. La solitudine è la forma di rivolta più vera e meno sentita –sventra tutti i falsi i miti e le menzogne, ma senza far rumore, Ogni parola che dici è un brandello di te che dai al mondo –per questo è meglio dirne poche, Se sai ascoltare l’acqua, allora sei nel Mondo e lui è in te e ormai nulla può fermarti, Se vi fa paura l’idea del nulla, allora dovreste smetterla di vivere come se non esisteste…
Ogni tre o quattro giorni, raccolto abbastanza pesce, i due uomini tornavano sulla costa, raggiungevano una qualche città e attraccavano la barca. Dopodiché Konstantinos scendeva a terra e vendeva il pescato. Dopo qualche ora ripartivano.
In quelle occasioni Jordan, per esplicito ordine del pescatore ma anche per sua volontà, non scendeva mai, ma si rannicchiava sottocoperta e dormiva, oppure i sedeva contro una parete e si rilassava. Spesso ascoltava affascinato i rumori del porto, pensava agli uomini che li producevano e pensava all’abissale distanza che c’era tra lui e loro. Nulla più aveva in comune col Mondo che stava a terra.
Né del resto si sentiva davvero parte del mondo di Konstantinos, che faceva mondo a sé. Ma allora a che mondo apparteneva? Forse era in bilico tra due mondi, si muoveva e oscillava nella sottile zona di incertezza che separa due culture diverse, come un agnostico si muove e oscilla tra ateismo e teismo. O forse la sua non era una situazione di incertezza, ma di libertà; forse lui, e lui solo, danzava nello spazio vuoto tra i Mondi, un nomade del pensiero senza casa alcuna. O forse egli, come Konstantinos quando aveva deciso di abbandonare la civiltà (perché doveva averlo deciso, non era un pescatore qualsiasi, era uno che aveva lasciato la terra per il mare), non aveva più una cultura cui appartenere, e altro non gli restava da fare che crearsene una propria. Ma quale?
Una volta Jordan inciampò, e i suoi piedi colpirono il ponte e produssero un bizzarro suono ritmato. Allora il pescatore fece scattare le gambe, colpendo furiosamente il ponte, e i suoi piedi produssero un ritmo simile a quello prodotto da Jordan per caso, ma più rapido e controllato; e allora Jordan colpì nuovamente il terreno, e produsse un altro ritmo –differente, più pacato; e il pescatore saltò di nuovo; e i due iniziarono una sorta di surreale danza che altro non era che un dialogo, un dialogo fatto di ritmi e percussioni ottenuti saltando, e dopo un po’ stavano saltando e piroettando furiosamente finché si ritrovarono esausti contro un muro, e a quel punto Konstantinos scoppiò a ridere.
Un’altra volta, poco dopo colazione, mentre fissava il mare, Jordan sentì un fischio acutissimo risuonare sul ponte e corse subito in cabina, dove Konstantinos gli indicò il timone.
‘Devo… Devo pilotare io?’
Konstantinos annuì.
Nei giorni precedenti, Jordan, guidato per mano dal pescatore, aveva ricevuto alcune lezioni su come guidare –ma non pensava che Konstantinos gli avrebbe dato il comando della barca; tanto più che quello preferiva remare e farlo remare (e poiché la barca era lunga almeno sette metri, bisognava piazzarsi a poppa e usare un unico remo lungo un buon tre metri; la qual cosa era oltremodo faticosa).
‘Dove… Dove dobbiamo andare?’
Il pescatore alzò una rete appoggiata lì a terra.
‘A pescare? Ma Konstantinos, come faccio a sapere dove trovo tanto pesci?’
E quello: ‘Ascolta l’acqua. Se sai ascoltare l’acqua, allora sei nel Mondo e lui è in te e ormai nulla può fermarti.’
Dopodichè sputò in mare.
Mai in vita sua l’altro avrebbe dimenticato quella scena.
Un giorno, mentre a poppa Konstantinos stava remando, Jordan chiese ‘Scusa, Kostantinos, ma che città era?’, riferendosi a una cittadina che avevano appena abbandonato.
Il pescatore scrollò le spalle.
‘Una città.’
‘Bè, sì, ma… Non sai come si chiamasse?’
‘No.’
Passò un poco di tempo.
‘Tutte uguali, le città, per chi non ci vive.’
‘Sì, immagino.’
Calò il silenzio.
‘D’altro canto’ disse poco dopo Jordan ‘anche le barche mi sembravano tutte uguali prima di salire su questa.’
‘Ogni barca è unica. Come il proprietario.’
‘Ogni barca è lo specchio del proprietario, immagino…’
‘Il contrario. Uno costruisce la barca per far apparire il lato di sé che vuole che gli altri conoscano, e poi la barca non viene come lui pensava. E poi la barca inizia a sembrargli sempre più bella, e non capisce che è la barca che modella lui. Modella lui perché ha bisogno di qualcuno che la guidi –se no come farebbe a muoversi? Ha bisogno di un aiuto per navigare…’
A lungo parve riflettere.
‘Puoi capire molto di una persona dalla sua barca. E molto di una barca dalla sua persona.’
‘Anche tu rifletti la tua barca, immagino.’
Konstantinos non rispose e Jordan non chiese più nulla.
La sera stessa Konstantinos iniziò a raccontare.
Fu un cambiamento inaspettato, passare dal silenzio quasi assoluto all’ascolto perenne. Ma fu un ascolto gradito.
Konstantinos narrava di sé, e probabilmente c’era poco di vero in quel che narrava –quasi come se volesse impersonare lo stereotipo del ‘marinaio contaballe’; ma la sua narrazione era tuttavia affascinate. Raccontava incontri, sfide, scambi, raccontava altri modi di pensare e di vedere le cose, e a volte inseriva nei suoi racconti episodi tratti da libri –specialmente dall’Odissea; e in effetti aveva molto di omerico nel modo di narrare. La sua narrazione non aveva un filo, o meglio lo aveva, ma era un filo intangibile, che si sdoppiava, mutava forma, si avviluppava, roteava su se stesso; egli intrecciava più racconti in uno, creava e scioglieva nodi narrativi, divagava, gettava nelle sue storie aneddoti, nozioni scientifiche, battute; i suoi racconti si svolgevano in uno spazio che era certo reale, ma trasfigurato, rivisitato dalla sua fantasia che dava un carattere di assolutezza a tutto ciò che vedeva.
Non era, come inizialmente pensò Jordan, un ritorno improvviso alle consuete modalità di espressione orale, no; perché non vi era alcun dialogo, anzi, e perché il pescatore non si rivolgeva solo al suo passeggero, ma anche a se stesso, al cielo, al mare, al mondo. La verità era che quello strano personaggio che non aveva simili al Mondo riconosceva il ruolo mitico, primordiale che la narrazione aveva avuto, e che era stato in parte -ma non del tutto- usurpato dalla religione, dalla scienza e dalla filosofia; la narrazione quale supremo metodo di conoscenza della realtà.
I suoi racconti spesso si interrompevano, erano intervallati da lunghe pause, o accompagnati dal grandissimo repertorio di gesti, espressioni, rumori, ululati, azioni mimate, salti, filastrocche, sputi, poesie e canzoni che Konstantinos conosceva.
Spesso il pescatore si accompagnava battendo le mani e le gambe e scandendo le parole in modo tale da crearsi un fitto accompagnamento ritmico.
Poiché nelle scuole americane non si studia il greco antico, a Jordan questa pratica ricordava la musica rap.
Se avesse mai letto l’Odissea in greco antico, avrebbe allora capito che Konstantinos non omaggiava il rap, ma la lettura metrica che aedi ebbri di vino avevano fatto secoli prima di versi esametri; e che quello a cui assistiva altro non era che la celebrazione ultima di Omero, maestro e ispiratore di quello strano uomo di mare.
Quando mancavano ormai due giorni allo scadere delle due settimane, qualcosa colpì la barca. Entrambi lo sentirono e corsero a vedere ciò che stava accadendo.
Ed entrambi sussultarono quando lo videro.
Per decine di metri attorno alla Beatrice l’acqua era coperta di pesci morti, meduse morte, polpi morti, piovre morte, calamari morti, gabbiani morti che galleggiavano inerti; un’ecatombe di animali marini che circondava la barca.
Jordan restò immobile, stupefatto, a bocca aperta.
Konstantinos serrò la labbra e girò la barca.
Quando si erano allontanati, commentò: ‘Capisco che voialtri vi vogliate suicidare, ma perché portare con voi ogni creatura del Pianeta, non riuscirò mai a capirlo.’
Dopodiché tacque.
Continuò a tacere per tutto il pomeriggio e durante la cena, e non era più il suo silenzio solito. Era un silenzio scontroso, irato, gravido di astio.
Cenarono assieme senza parlare.
Dopo cena, Jordan andò a letto. Aveva molto sonno, ma non riuscì ad addormentarsi; sentiva ribollirgli in petto un profondo disagio, un malessere di natura ignota… No, non era vero, sapeva bene che cosa lo turbava. Il comportamento di Konstantinos l’aveva ferito.
E poiché non aveva intenzione di tenersi dentro il suo malessere, uscì dal sacco a pelo in cui dormiva e camminando a testa bassa -l’interno della barca era piccolo e stretto- andò a cercare il pescatore.
Lo trovò che camminava sul ponte.
‘Ehi’ gli disse.
Quello tacque. Come la prima volta che l’aveva visto, la sua figura sembrava mischiarsi e fondersi con le ombre.
‘Konstantinos, possiamo parlare?’
Annuì.
‘Parlare normalmente, intendo. Con un dialogo.’
‘Sì, Alfred, l’avevo capito.’
‘Senti, mi spiace per quello che abbiamo visto oggi. Sono abbastanza certo che… Che fosse un disastro di origine umana. E anche se non lo fosse stato, anche se quei morti li avesse fatti… Qualcos’altro, un batterio, o un terremoto marino magari, so bene che la mia civiltà… La civiltà da cui provengo… Fa spesso cose simili. E mi spiace. Ma… Ma ti sei arrabbiato con me? Perché io non ho colpe.”
Calò il silenzio.
‘Konstantinos…’
‘Sì, tranquillo. No, Alfred, non sono arrabbiato con te. Ma… Ma quei pesci li ha uccisi la tua cultura. La cultura di cui anche tu sei imbevuto. Tu hai colpa, sai? Una percentuale minima di colpa; ma sempre una colpa.’
‘Ma perché?’
‘Perché la tua, Alfred, è una razza ingorda! Tu, la tua gente, voi tutti, lottate contro l’Universo perché volete. Volete. Volete. Ma no, parlo per luoghi comuni…’
Riflettè.
‘No, non è il volere il problema, tutti desiderano qualcosa… Ma voi… Ma voi siete drogati di voi stessi… Voi non riuscite a fermarvi in silenzio e a guardarvi attorno… Avete dei desideri, ma non riuscite… Non dico a controllarli, quello è impossibile, ma a capirne la natura… E così vi riempite gli occhi di luci, fino a diventare ciechi, e le orecchie di suoni, e non ascoltate mai… Parlate, parlate, ma non dite niente… O meglio; non raccontate niente… Ma no… Come faccio a spiegartelo senza sembrare banale?
Voi non sapete più amare.
Avete gli occhi ebbri di immagini, ma non vi beate della vista; avete le orecchie sature di suoni, ma non amate davvero la musica; parlate sempre, sempre, ma non
amate le parole… La scienza vi schiude scrigni immani di sapere ma voi guardate il cielo senza curiosità. Siete così arroganti, ma siete tutti addormentati… Ciechi, e sordi, e grassi, sovraccarichi e satolli di tutto ciò che avete, ma ne volete ancora… E nella vostra fame schiacciate e mangiate tutto quello che avete intorno e, peggio ancora, tutto quello che vi sta dentro… Tutto quel che siete, voi lo state facendo a pezzi…’
Tacque.
‘Sai’ disse Jordan ‘è facile per te dire così. Tu hai scelto la via facile; ti sei tirato via e ci hai lasciati soli.’
‘La solitudine è la forma di rivolta…’
‘Più vera e meno sentita, me l’hai già detto, ma tu non fai nulla per cambiare le cose…’
‘Non è vero, molto ho fatto a mio tempo.’
‘Sì, e ora?’
‘Sto parlando con te.’
‘E allora dimmi, che cosa dovrei fare? Abbandonare tutto ciò che ho e vivere in povertà?’
‘Se è di questo che senti il bisogno, sì!’
‘Perché cerchi di giudicarmi?’
‘Non ti sto giudicando…’
‘Sì che lo stai facendo!’
‘No!’
‘Sì!’
‘Va bene! Ti sto giudicando! Te, e tutti i tuoi simili, per quello che fate! Perché i pesci morti di oggi sono il minimo! Credi che perché vivo su una barca non sappia niente? Della crisi, dei suicidi, delle guerre, di come vi odiate e vi ammazzate e ammazzate il Pianeta?’
‘Tu puoi giudicarci per quel che facciamo, non per come viviamo!’
‘È il modo in cui vivete che determina le vostre azioni! Io ho solo una barca, e sono un uomo libero. Io ho solo me stesso e quel che vedi e sto bene! Voi avete tutto e la sola idea di rinunciarci, di avere di meno, vi terrorizza. Avete tutto! E non vi serve a niente. Dove vi ha portato la vostra civiltà, Alfred Jordan? Meglio ancora, dove ha portato te?’
Al suicidio, pensò lui, e tacque per alcuni istanti. Poi riprese a parlare.
‘Hai ragione, la nostra civiltà ha i suoi orrori e noi talvolta ne siamo parte. Ma almeno abbiamo una civiltà. Tu che cos’hai?’
‘Davvero non lo sai?’
‘No.’
‘Guarda sopra la tua testa.’
Allora Alfred Jordan alzò il capo, e vide che sopra di lui, libero da nuvole di alcun tipo, si stagliava il cielo, e nel cielo erano accese milioni di stelle.
Era lo spettacolo più bello che avesse mai visto.
E senza dire una parola iniziò a piangere silenziosamente.

cod. concorrente 2603201506


Leave a Reply


>