Se gli interessi non sono quelli del Pianeta.. (14502)

cod. 270206363

Rebecca Vitelli, 20 anni, di Carpineto Romano, a caccia di soluzioni per consegnare al meglio il Pianeta alle generazioni future, indaga sulle potenzialità della canapa.

Da anni esperti, politici ed ecologisti s’interrogano su come l’uomo possa gravare meno sul Pianeta, vivendo con quanti più comfort possibili, ma, al tempo stesso, preservando l’ambiente per le generazioni future; su come produrre efficacemente energia senza ricorrere al tanto dannoso petrolio, tra l’altro destinato ad esaurirsi, o su come ridurre la deforestazione continuando ad avere, però, la medesima disponibilità di carta e suoi derivati. Queste, nel moderno 2015, potrebbero sembrare antinomie o mere utopie, destinate a rimanere tali. Agli inizi del ‘900, però, tali problemi non sembravano così insormontabili, e una risposta incentrata sulla scarsa industrializzazione o sui minori consumi appare troppo semplicistica. In passato, infatti, in America come in Europa, aveva larga diffusione la coltivazione della canapa (intesa come cannabis sativa, libera da principi psicoattivi), pianta dai molteplici usi, e dalle innumerevoli risorse. Chi ci ha preceduto se ne serviva per alimentare motori a scoppio, ricavarne tessuti caldi e resistenti, oltre alle diffusissime funi e tele per dipingere, così come carta per libri e giornali. Fabbricare carta con la canapa, infatti, comporta una serie di apprezzabili vantaggi: innanzitutto è una pianta con un’enorme produttività di massa vegetale e, di contro, contiene una bassa percentuale di lignina rispetto al legno di albero. Ne consegue, dunque, che il processo per ottenere dal legno degli alberi le microfibre pulite dalla cellulosa è più costoso ed inquinante e si serve di derivati del petrolio. In sostanza, il vantaggio della produzione di carta dalle piante di canapa consiste nel non aver bisogno di acidi sbiancanti che, a loro volta, producono diossina che, a sua volta, inquina i corsi d’acqua. Inoltre, dato di tutto rilievo, la canapa produce in un anno una quantità di cellulosa 16 volte maggiore di quella ricavata dal legno d’albero. Occorre poi aggiungere che sfruttata come carburante, la canapa , a parità di rendimento, costa circa un quinto rispetto ai derivati del petrolio, e come supporto per la stampa circa un decimo della carta, come prodotto tessile ha proprietà ignifughe ed è circa quattro volte più morbida del cotone e tre volte più resistente allo strappo. Ma le sue potenzialità non si esauriscono qui, infatti, vi si possono ricavare più di 25 mila prodotti diversi e dai suoi derivati naturali potrebbero essere sostituiti quasi tutti i materiali e prodotti inquinanti presenti nella nostra società. La canapa, infatti, potrebbe essere una valida alternativa alla petrolchimica, in quanto da essa si possono ricavare solventi non inquinanti per le vernici e plastiche molto resistenti ma biodegradabili, o la base per la bioedilizia, in quanto il canapolo (un suo derivato) potrebbe rappresentare l’alternativa non tossica di cemento, intonaco e materiali isolanti. Da non sottovalutare è, poi, l’uso alimentare, in quanto l’olio di canapa ha un’ottima percentuale di acidi grassi omega 3 e omega 6. Ma l’ambito più rilevante in cui può esser fruttata la canapa è, forse, quello della protezione ambientale, per le sue capacità di stoccaggio di anidride carbonica molto superiore a quella delle foreste e di assorbimento di alcuni metalli pesanti. La domanda sorge, allora, spontanea, perché fino ad oggi poco o nulla si è fatto per reintrodurre la coltivazione di questa pianta poco costosa e facilmente coltivabile a qualunque latitudine del pianeta? La risposta è presto data, è sufficiente focalizzare il periodo che coincise con il declino della coltivazione della canapa. Ciò avvenne negli anni ’30, e sembra più di una coincidenza il fatto che a quell’epoca, nel panorama internazionale, si affacciarono nuovi ed enormi interessi. Si stavano, infatti, affermando grandi gruppi industriali americani, come la Standard Oil di Rockfeller, che per la produzione di energia e materiali plastici miravano allo sfruttamento del petrolio, mentre la carta di giornale dell’editore Hearst (che non ne controllava la produzione a scopo di rivendita, ma se ne serviva, come maggior consumatore negli Stati Uniti, per le esigenze del suo impero editoriale) era ricavata dal legno degli alberi attraverso l’uso di solventi chimici forniti dall’industria chimica Du Pont, che si stava imponendo anche nel campo dell’abbigliamento per l’introduzione sul mercato di fibre artificiali, quali il nylon. Il nemico comune da abbattere era, dunque, la canapa, che già si era imposta in tutti quei campi. Cominciò, allora, una grande campagna mediatica per la messa al bando della canapa, giocando sulla confusione tra cannabis sativa, d’intralcio agli interessi dei nuovi gruppi industriali, e cannabis indica, dannosa per la salute che andava, realmente, combattuta. Questo processo di demonizzazione partì proprio dalle colonne dei giornali di Hearst, che, per l’occasione, utilizzarono il termine “marijuana”, con una voluta connotazione dispregiativa, in quanto d’uso comune in Messico, considerato, all’epoca, paese ostile agli USA. Persuasa l’opinione pubblica, il colpo di grazia alla canapa arrivò, infine, nel 1937, dalla politica, che varò il “Marijuana Tax Act”, che tassava di un dollaro qualsiasi transazione riguardante la cannabis, sativa o indica, e suoi derivati. In Italia la messa al bando arrivò più tardi, con il D.P.R. 309/90 (Legge antidroga Jervolino-Vassalli), ma la produzione calò già dalla fine degli anni ’50 ed il consumo era già stato vietato nel 1961, con la sottoscrizione della “Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti”. Nonostante i numerosi interessi in ballo, la canapa, oggi, potrebbe vivere un nuovo periodo di splendore, in quanto può ambire a configurarsi come la regina della riconversione ecologia dell’economia, riappropriandosi del suo ruolo in ambito ambientale e ripartendo dal punto in cui il cammino si era interrotto tanti anni fa. Basti pensare a progetti come quello di Henry Ford che, già nel 1941, aveva costruito la sua Hemp Body Car, interamente realizzata in materiali plastici ottenuti da soia e canapa ed alimentata con etanolo di canapa. Ed è su questa strada, solo in minima parte percorsa, che ci si sta muovendo. In Italia e non solo, sono, infatti, in crescita i progetti incentrati su un nuovo sviluppo della coltivazione di canapa. Uno di questi è CanaPuglia, progetto volto alla diffusione della canapa, nato nel 2011 e vincitore del bando “Principi Attivi”, promosso dalla Regione Puglia per incentivare e finanziare le iniziative dei giovani. L’idea di tornare a coltivare la canapa e sfruttarla come grande risorsa per l’uomo e per l’ambiente è, infatti, di un gruppo di giovani, con età media intorno ai 25 anni, che si è posto come obiettivo quello di informare, organizzare corsi, eventi di sensibilizzazione e progetti nelle scuole, oltre che visite guidate nelle piantagioni , studi e ricerche scientifiche sulla cannabis. Nel solo 2011, in Puglia, sono stati seminati 120 ettari a canapa, e, a ruota, al progetto si sta lentamente aggregando il resto della penisola, grazie anche ad AssoCanapa, responsabile del coordinamento nazionale per la canapicoltura in Italia. Nel settembre dello scorso anno gli agricoltori hanno, poi, dopo lunghe battaglie legali, ottenuto il riconoscimento che il “Testo Unico sugli Stupefacenti” (già citato come D.P.R. 309/90) non si applichi alle coltivazioni di canapa ad uso industriale. Ad oggi il settore risulta in crescita, a ritmi certamente non esaltanti, ma, il 2014 potrebbe esser ricordato come l’anno della svolta. Infatti, secondo AssoCanapa, le aziende agricole coinvolte nella semina della canapa sono raddoppiate, passando da 150 a circa 300, e gli ettari coltivati, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, sono diventati circa 1000. Questi dati, confrontati con quelli degli anni ’30, in cui l’Italia, per la coltivazione di canapa, era seconda solo all’Unione Sovietica, non appaiono molto positivi, in realtà potrebbero fungere da volano per un futuro in cui questo settore potrà offrire nuove opportunità di lavoro e di rinnovamento ambientale.


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