Basilicata, un triste futuro primato

di Giuseppe Rosario Messina, 29 anni, di Potenza

Letto del fiume Basento al di sotto della sua media annua (foto di Giuseppe Rosario Messina)A Parigi dal 30 novembre del 2015 fino al 11 dicembre si è svolto un importante incontro, quello della COP 21, dove si sono riuniti tutti i capi di Stato per prendere provvedimenti circa il cambiamento climatico e per evitare che la temperatura del pianeta giunga o addirittura superi i 2 gradi andando a creare seri problemi all’ecosistema grazie all’innalzamento della produzione di CO2 .

A questo importante incontro hanno partecipato anche i rappresentati dell’Italia i quali confrontandosi con gli altri membri del meeting hanno cercato di portare soluzioni al problema.

Soluzioni che però non tengono conto di un grave problema che consiste nel fatto che proprio dall’Italia potrebbe partire l’innalzamento della temperatura mondiale in quanto non si pone e non si è mai posta la giusta attenzione alla situazione che si è creata e che si sta sviluppando in Basilicata, una piccola regione posta nel Sud della nazione.

In questa regione, grazie alle trivellazioni dovute alla continua ricerca del petrolio nella Val d’Agri e all’attività segreta, nonostante le proteste da parte del comune e dei cittadini, di smaltimento delle scorie radioattive nella zona di Scanzano Ionico, si sta per toccare il punto di non ritorno in quanto tutta questa smodata attività di sfruttamento del territorio e la continua produzione di CO2 sta portando velocemente la temperatura mondiale sulla soglia dei 2 gradi.

Infatti gli scienziati e i rappresentanti di Legambiente e del WWF lucani sostengono che quando entreranno in vigore le normative della COP 21 nel 2020 la temperatura sarà già sui 2 gradi se non oltre rendendole del tutto inutili.

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I cambiamenti climatici e il futuro della Terra

di Giuseppe Toninelli, 29 anni di Riesi (CL).

Mini documentario sui cambiamenti climatici realizzato tra Expo Milano 2015 e Riesi. Il progetto è stato realizzato per la redazione di Giornalisti nell’Erba. Sono intervenuti Frank Raes, Gianfranco Bologna, Matthias Meissner e Pepe Mujica. Per l’occasione sono stati coinvolti i bambini della 5° elemenatere del Servizio Cristiano Istituto Valdese di Riesi.

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Zero metri sul livello del mare

di Lucia Lenci, 29 anni di Roma, e Agnese Metitieri, 28 anni, di Rocca di Papa (Roma)

Gli esperti concordano: il cambiamento climatico è in atto e l’uomo ne è il principale artefice. Gli impatti, non ugualmente distribuiti sul pianeta e per questo difficili da percepire, sono enormi. Fenomeni di stress biofisico, legati all’aumento degli eventi meteorologici estremi, all’innalzamento del livello dei mari e alla progressiva desertificazione, mettono a rischio gli equilibri ambientali, geopolitici ed economici attuali. A risentire gli effetti maggiori di questa trasformazione saranno i paesi più vulnerabili. Tra questi alcune isole del Pacifico, che vedono la loro stessa sopravvivenza minacciata dalle conseguenze del surriscaldamento globale.

Secondo stime dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’aumento del livello del mare in questi piccoli stati insulari tra il 1950 e il 2009 è stato tre volte maggiore della media mondiale, crescendo di 3.2 mm in media, in rapporto agli 1.5 mm dei secoli precedenti. In prospettiva, alla fine del secolo, le precipitazioni aumenteranno del 2% ed il livello dell’acqua si innalzerà di circa mezzo metro. Se questo scenario si concretizzasse, arcipelaghi-stato come quelli di Kiribati, Vanuatu e Tuvalu, con un’altitudine media di 2 metri sul livello del mare, rischierebbero in pochi anni di essere parzialmente, se non completamente sommersi. Di questo passo, un terzo della barriera corallina è destinata a sparire. Un duro colpo anche per il settore di maggiore sostentamento economico dell’area, quello turistico, il cui volume d’affari negli ultimi anni ha subito una drastica contrazione. Proprio il turismo, lo sviluppo demografico e la costruzione di infrastrutture sulle coste hanno contribuito a rendere le isole sempre più vulnerabili. Certa è anche la relazione tra cambiamento climatico ed emergenza sanitaria dovuta alla diffusione di malattie come la febbre dengue e la malaria. Una situazione che, secondo il gruppo intergovernativo di esperti sul clima, può solo peggiorare se non si prendono ferme decisioni in rapporto alle emissioni consentite. In accordo con gli studi condotti dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, l’IPCC individua l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi centigradi. Questo da un lato eviterebbe che siccità, inondazioni e tifoni compromettano le attività di pesca e raccolta del corallo cui si dedicano le popolazioni degli stati insulari in via di sviluppo. Dall’altro conterrebbe i danni per la produttività agricola e la sicurezza alimentare degli abitanti. Maggiore frequenza di parassiti ed erbe infestanti, erosione del terreno e perdita della fertilità rischiano inoltre di diventare driver per flussi migratori incontrollati.

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Controllo dei danni subiti in seguito a un’inondazione nello Stretto di Torres. La mancanza di modelli in grado di fornire dati certi e a lungo termine sulla frequenza e l’intensità delle precipitazioni, sulla velocità e direzione del vento, sul livello del mare, sulla temperatura dell’oceano e sulla sua conseguente acidificazione rende molto difficile una previsione sul futuro di queste isole. (credits TSRA Torres Strait Regional Authority)

La situazione si rivela tuttavia complessa sotto diversi livelli: mancano dati certi per le piccole realtà e quelli che si hanno non sono generalizzabili a tutta l’area. Ogni isola diventa così un microcosmo per il quale è necessario trovare risoluzioni specifiche. In questo panorama, resilienza è la parola chiave. L’adattamento alle condizioni presenti e future consentirebbe di migliorare la vita delle popolazioni autoctone e di limitare, laddove consentito, la tendenza alla migrazione verso altri Paesi in risposta alla scarsità di risorse. Nelle isole Salomone e Marshall, come in molte altre nel Pacifico, mantenere la diversità agricola, puntare su energie rinnovabili, convertire le strutture per renderle più eco-sostenibili e costruire barriere adeguate, sono tra le necessità inderogabili. Adattamento non implica, infatti, accettazione passiva senza puntuali decisioni.

Secondo uno studio svolto dalla Commissione Economica e Sociale per l’Asia ed il Pacifico (ESCAP) dal 2005 al 2015 su tre isole del Pacifico, la probabilità che i residenti di Kiribati e Tuvalu si spostino è del 70% nel caso in cui il raccolto non migliori, non diminuiscano le tempeste e il livello del mare. 35% è invece la probabilità per gli abitanti di Nauru a parità di condizioni. Se nel 2055 è previsto un incremento della migrazione del 100% a Tuvalu, in alcune isole è attivo già ad oggi un programma di adattamento climatico per le comunità, che possono così affrontare questa sfida muniti di strumenti più appropriati possibile. “Con le previsioni fatte fino ad ora, le nostre isole saranno sommerse tra 100 anni. Una delle strategie è di innalzare il livello delle barriere per contrastare le inondazioni. Dovremmo spostare alcune abitazioni sulle colline, lontane dalla costa, ma questa soluzione non è applicabile a tutti gli stati insulari”, dichiara Joseph Elu, presidente dell’autorità regionale dello Stretto di Torres (TSRA) tra Australia e Papua Nuova Guinea. “Migrare non è un’opzione per ora: stiamo cercando di impegnarci il più possibile per salvare la nostra casa. Ma è necessario avere un piano di azione a lungo termine”, continua Elu.

Tracciare delle politiche sovranazionali di controllo degli spostamenti e investire in favore dello sviluppo sostenibile appare l’unica via percorribile per limitare gli effetti del cambiamento climatico e tenere in vita l’economia dell’area. A fronte dell’enorme sfida che alcuni dei suoi esponenti sono chiamati ad affrontare già oggi, il genere umano nella sua interezza dovrebbe armarsi per combattere contro gli effetti di un cambiamento epocale che lui stesso ha innescato. Una nuova guerra mondiale, questa volta senza schieramenti opposti, ma su un fronte comune. Per la salvaguardia del futuro della nostra specie.

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Gaia Hotel: “Si pregano i gentili ospiti di rispettare gli spazi comuni”

di Floriana Lecci, 21 anni, di Foggia

Campagna molisanaChi di noi non si è sentito dire almeno una volta: “Questa casa non è un albergo!”; preludio di un interminabile rimprovero per ristabilire l’ordine sull’immenso caos che possono nascondere le mura di casa. Per quanto apparentemente minacciose, queste parole hanno un significato profondo: chiamano in gioco collaborazione e impegno da parte di tutti, nelle proprie possibilità ovviamente, affinché si possa convivere serenamente nel rispetto dell’altro. Significano: non essendoci una cameriera che passerà a rifare le stanze, un receptionist pronto a esaudire ogni vostro desiderio o un barista in divisa che vi preparerà la colazione al mattino, dobbiamo tutti rimboccarci le maniche e fare in modo che i più grandi diano il buon esempio ai più piccoli.
In famiglia, e quindi in casa, c’è il primo esempio di società; è il primo posto dove s’imparano il rispetto e le fondamentali regole di convivenza civile per una società e un mondo migliore.
“La città è una grande casa e, a sua volta, la casa è una grande città” (Leon Battista Alberti).
E già, proprio il Mondo, la nostra Terra… anch’essa una casa che tutti hanno il dovere di preservare e curare.
Negli ultimi tempi però l’uomo usa, nei confronti del Pianeta, comportamenti più che deleteri: dalla rivoluzione industriale a oggi i tassi d’inquinamento, progressivamente distruttivi dell’ecosistema, stanno consegnando alle future generazioni una catastrofica mutazione climatica.
È proprio il clima, infatti, il fattore più compromesso dall’inquinamento ed è quello dalla cui violenta aggressione dipendono molti dei fragili e complessi equilibri che rendono il pianeta azzurro ospitale per gli esseri viventi.
I dati parlano chiaro: secondo un’indagine condotta dall’Ipcc nel 2007 “…le attività umane dal 1750 sono responsabili, con elevata probabilità, del riscaldamento del clima”. Da esso, infatti, dipendono i sempre più frequenti disastri ambientali (alluvioni, trombe d’aria), lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari che non solo provoca l’innalzamento del livello del mare, (dalla fine dell’Ottocento a oggi aumentato di 20cm.), ma riduce anche la disponibilità d’acqua in agricoltura.
Paradossalmente però anche l’agricoltura e l’allevamento contribuiscono a indebolire gli ecosistemi: il climatologo Luca Mercalli sostiene, infatti, che questa è stata per secoli dipendente dal clima ma che da ormai circa mille anni la produzione alimentare è diventata, a causa della quantità di energia fossile impiegata e della deforestazione tropicale, un potente fattore di cambiamento.
L’allevamento, spesso intensivo, dal canto suo è invece la prima causa del riscaldamento globale in quanto vi contribuisce con un notevole 40% in più rispetto all’intero sistema mondiale dei trasporti.
Questi gravi danni all’atmosfera innescano una serie di reazioni a catena che inevitabilmente si ripercuotono sull’essere umano; si stima, infatti, che se la percentuale di CO2 non sarà ridimensionata, tra il 2030 e il 2050 ci saranno 250.000 vittime da inquinamento in più l’anno da contare soprattutto tra bambini, anziani e le popolazioni dei Paesi più poveri; sono questi ultimi poi a subire i maggiori danni in quanto più soggetti a siccità ed eventi meteorologici estremi che minacciano conseguenzialmente gli sforzi per raggiungere uno sviluppo sostenibile ed eliminare la povertà.
Se poi aggiungiamo che questi sono spesso vittime della guerra che contribuisce in maniera sostanziale a peggiorare la situazione, il quadro assume tinte drammatiche per il futuro dell’umanità. I bombardamenti, infatti, rilasciano nell’atmosfera una quantità di CO2 tale che, sommandosi con quella già presente, porta ai livelli d’inquinamento insopportabili per la vita della Terra.
Come se non bastasse, i composti chimici presenti negli ordigni inquinano anche il suolo e le falde acquifere che, con un effetto domino, contaminano l’allevamento e l’agricoltura con gravi danni sulla salute di popoli già abbondantemente provati.
Quali le conseguenze sull’economia mondiale? I costi sulla salute, dovuti al cambiamento climatico, incideranno in maniera incontrollata poiché non ci saranno da affrontare solo le malattie direttamente collegate ma si dovrà far fronte a tutti i problemi che riguarderanno il “sistema salute”. È importante rilevare però che la metà più povera del mondo emette solo il 10% di CO2 mentre il 10% più ricco ne produce circa la metà (dati Oxfam). Inoltre questo 10% prodotto dai Paesi in via di sviluppo non è calcolabile perché emesso per produrre beni di consumo destinati a Paesi ricchi.
Contrariamente a quanto potrebbe sembrare clima e disuguaglianza economica sono strettamente connessi; come ha detto James Hansen, in sede del World Economic Forum del gennaio 2013, le due sfide del secolo sono proprio il superamento della povertà e la gestione dei cambiamenti climatici, “…se falliamo in una, non avremo successo nelle altre. I cambiamenti climatici non gestiti di-struggeranno il rapporto tra l’uomo e il pianeta.”
È per far fronte a questa delicata situazione e per combattere lo status quo, che va a beneficio esclusivo di un ristretto gruppo di “super ricchi”, che annualmente i potenti del mondo si riuniscono nella “conferenza delle parti del UNFCCC”.
Tenutasi quest’anno a Parigi e presieduta dal ministro degli esteri francese Laurent Fabius, la conferenza ha avuto come obiettivo per la prima vota, in più di un ventennio, la volontà di stipulare un accordo vincolante sul clima. Il 12 dicembre 2015, centonovantasei Paesi hanno approvato l’Accordo di Parigi che, per entrare in vigore, dovrà essere però ratificato da almeno cinquantacinque governi entro aprile 2016.
Il punto cardine della discussione è stato la concorde volontà di creare soluzioni tali da poter man-tenere il riscaldamento globale sotto i 2°C e puntare, entro il 2100, a 1,5°C. Quest’accordo si basa su impegni volontari e individuali di ciascun paese e prevede controlli ogni cinque anni; per il momento, nel caso in cui non si riuscissero a rispettare i limiti previsti, non ci saranno sanzioni, ma sarà applicato un sistema di “name and shame”, ovvero un programma d’incoraggiamento, per gli inadempienti.
A questa conferenza erano presenti anche le economie della Cina e dell’India – ultime arrivate nel quadro delle grandi economie mondiali – che, per quanto siano tra i Paesi più inquinanti, potranno rientrare con tempi meno stringenti nel range fissato perché non considerate responsabili delle emissioni di gas serra durante il periodo d’industrializzazione. Si può, quindi affermare che queste decisioni costituiscono il primo passo verso il più grande obiettivo delle “emissioni 0” da raggiungere necessariamente entro la seconda metà del secolo per scongiurare calamità ambientali.
A Parigi si è discusso anche di economia: calcolando che azioni immediate tese a stabilizzare la concentrazione dei gas serra in modo da sfavorire cambiamenti climatici costerebbe all’anno circa l’1% del PIL mondiale (al 2050) e che i costi dell’agire sono insignificanti rispetto a quelli del non agire, le misure per contrastare il global warming “…sono anche la strada per affrontare la crisi e uscirne con un’economia green e a misura d’uomo” (E. Realacci). È quindi per il principio della differenziazione – che consiste nel riconoscimento, da parte dei Paesi sviluppati, della responsabilità storica per le emissioni di gas – questi si sono impegnati a finanziare la lotta al riscaldamento con cento miliardi annui da erogare interamente entro il 2025 e da innalzare gradualmente da qui al 2020. S’impegnano inoltre a ridurre le proprie emissioni e a fornire i mezzi per farlo. I Paesi poveri, per quanto è possibile, sono invitati a perseguire gli stessi obiettivi.
Sono stati presi importanti impegni anche sul fronte dell’energia pulita attraverso due iniziative: la prima, Mission Innoviation, vede venti Paesi (tra questi: Cina, India Indonesia, Brasile e USA) investire, nei prossimi cinque anni, venti miliardi di dollari nella ricerca alla Green Energy; la seconda, denominata Breaktrought Energy Coalition, vede invece finanziare la ricerca dell’energia pulita, nelle zone in via di sviluppo, da ventotto tra i privati più potenti del pianeta: tra questi Jeff Bezo e Jack Ma, rispettivamente fondatori di Amazon.com e Alibaba Group. L’Italia, da parte sua, stanzia invece tredici milioni di dollari agli Stati dell’Africa per le energie rinnovabili. Lo scopo di queste decisioni è quello di sostituire il protocollo di Kyoto (dicembre 1997) con un accordo altrettanto valido quanto “moderno”; il protocollo nipponico, infatti, è il documento più recente in merito al clima. Fu firmato diciannove anni fa da centottanta Paesi e la sua estensione è stata prolungata, dal 2012 al 2020, con l’accordo di Doha apportando ulteriori obiettivi nella riduzione delle emissioni P.
Nel frattempo è importante iniziare da noi con “Azioni locali per benefici globali” (J.M.Barroso): ridurre l’utilizzo di automobili private in favore dei mezzi pubblici, limitare l’uso di spray, non può essere che un intervento positivo a favore di quel sottilissimo velo che ci avvolge che è l’ozono.
Incentivare a razionalizzare l’uso dell’elettricità e del gas sarebbe altrettanto positivo. Usufruire della forza della Natura investendo nelle energie rinnovabili, attraverso dispositivi già collaudati come i pannelli solari o le pale eoliche o attraverso nuove invenzioni come la Diga del Vento, messa a punto dalla Cheatswood Associates non sarebbe sbagliato; oppure ricavare energia dai nostri scarti con dispositivi come il generatore di corrente inventato da Kelvin Doe, quindicenne della Sierra Leone.

Autostrada A14
Si può quindi concludere che, per quanto ci siano ancora questioni irrisolte, il COP21 è stato un in-contro abbastanza proficuo, per effetto del quale molte Nazioni hanno assunto responsabili impegni per contrastare il Global Warming consapevoli del fatto che: “Non possiamo consegnare ai nostri figli un pianeta divenuto ormai incurabile: il momento di agire sul clima è questo” (Barack Obama, agosto 2015), altrimenti ci ridurremo a respirare “aria in bottiglia” come già succede in Cina.

Lungomare di Napoli

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Transition si può

Articolo di Filomena Picchi, 25 anni, di Civitanova Marche

Orti urbani, permacoltura, mercatini del baratto: si può cercare l’essenziale anche in città. Per esempio facendo un corso di transition training (ne nascono ovunque, basta una ricerca su google per trovarne). Cos’è una città di transizione (transition town, appunto)? L’idea è nata in Irlanda e in Inghilterra non più di 7 anni fa, ed è già nota in tutto il mondo. L’obiettivo è quello di preparare le comunità ad affrontare la doppia sfida del riscaldamento globale e del picco del petrolio. Rob Hopkins, esperto di permacoltura, ha dato il via al movimento partendo da uno studio fatto di approcci multidisciplinari e creativi riguardo alla produzione di energia, salute, educazione, economia e agricoltura, verso un futuro sostenibile delle città. In siti d’informazione come ilcambiamento.it si legge che molte città italiane stanno ospitando gruppi di transizione. Granarolo, seconda realtà italiana ad aderire al movimento dopo Monteveglio, ha iniziato nel 2008 a tessere la rete delle collaborazioni. “Alcune proposte – spiega Marco, uno dei fondatori – erano già presenti a Granarolo quando abbiamo cominciato ad osservare la situazione. Tra tutte, la Banca del Tempo, a cui abbiamo semplicemente aderito, cercando di proporre eventi e sinergie per amplificarne la rilevanza. Fare rete con l’esistente è fondamentale, non serve creare alternative dove ci sono già, piuttosto serve individuarle, valorizzarle, lavorare insieme a loro”. Collaborazione, dunque, è la parola d’ordine.

Se gli interessi non sono quelli del Pianeta..

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Rebecca Vitelli, 20 anni, di Carpineto Romano, a caccia di soluzioni per consegnare al meglio il Pianeta alle generazioni future, indaga sulle potenzialità della canapa.

Da anni esperti, politici ed ecologisti s’interrogano su come l’uomo possa gravare meno sul Pianeta, vivendo con quanti più comfort possibili, ma, al tempo stesso, preservando l’ambiente per le generazioni future; su come produrre efficacemente energia senza ricorrere al tanto dannoso petrolio, tra l’altro destinato ad esaurirsi, o su come ridurre la deforestazione continuando ad avere, però, la medesima disponibilità di carta e suoi derivati. Queste, nel moderno 2015, potrebbero sembrare antinomie o mere utopie, destinate a rimanere tali. Agli inizi del ‘900, però, tali problemi non sembravano così insormontabili, e una risposta incentrata sulla scarsa industrializzazione o sui minori consumi appare troppo semplicistica. In passato, infatti, in America come in Europa, aveva larga diffusione la coltivazione della canapa (intesa come cannabis sativa, libera da principi psicoattivi), pianta dai molteplici usi, e dalle innumerevoli risorse. Chi ci ha preceduto se ne serviva per alimentare motori a scoppio, ricavarne tessuti caldi e resistenti, oltre alle diffusissime funi e tele per dipingere, così come carta per libri e giornali. Fabbricare carta con la canapa, infatti, comporta una serie di apprezzabili vantaggi: innanzitutto è una pianta con un’enorme produttività di massa vegetale e, di contro, contiene una bassa percentuale di lignina rispetto al legno di albero.